#Pesaro55 – È tutta un’altra storia. L’eredità dell’avanguardia femminista degli anni ‘70.

Curata da Federico Rossin, storico e critico del cinema, autentico speleologo d’archivi da considerarsi preciso punto di riferimento della ricerca del festival pesarese

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Curata da Federico Rossin, storico e critico del cinema, autentico speleologo d’archivi, ormai da considerarsi preciso punto di riferimento della ricerca del festival pesarese, la retrospettiva del cinema femminista degli anni ‘70 costituisce uno dei motivi di interesse principali di questa 55esima edizione della Mostra del Cinema.
Il lavoro di estrazione dagli archivi, soprattutto europei, di film e documenti filmati e la loro nuova pubblicizzazione, già di per sé istituisce un diverso rapporto con l’opera e si fa iniziativa pregevole per una rilettura in chiave attuale dei film. In questo stesso senso abbiamo vissuto nella scorsa edizione la rassegna dedicata alle sperimentazioni del ‘68 e questa è la stessa chiave utilizzata per la retrospettiva di quest’anno.
Le avanguardie femministe, cresciute nel brodo di coltura del ‘68, hanno saputo dimostrare quanto fino all’epoca poteva costituire solo teoria e cioè che erano maturi i tempi per dare voce ad una percezione differente e antipatriarcale del cinema e che su questa visione diversa è possibile fondare un’altra teoria che riveli la differente direzione da intraprendere. Il passo successivo rispetto a questa primaria consapevolezza è quello attuativo, che si fa vero attraverso una costante decostruzione dei principi sui quali il cinema maschile e dominante è fondato, per rivelare una autonoma soggettività femminile. È quel guardare da un altro punto di vista, quella semplice scoperta di una fondamentale differenza di posizione che, sotto altri profili, ha innovato il cinema attraverso teorizzazioni che hanno dato luogo alle correnti e alle scuole con una progressiva e incessante rifondazione della pratica cinematografica.

Le autrici che dall’inizio degli anni ‘70 del secolo scorso si sono susseguite riconoscendo che il loro lavoro risentiva di questa mutata sensibilità, in poche parole non hanno che messo in pratica, più o meno consapevolmente, proprio questi principi fondanti. Tracce evidenti di questo speciale sentire si ritrovano disseminate nella selezione dei film che, attorno al tema, sono stati raccolti.
Su questi assunti si fonda il lavoro storico e ricostruttivo di Rossin dal titolo generale Femminismi, che allarga la sua selezione tanto da dare luogo a quattro lezioni ciascuna con un tema preciso da sviluppare: Solitudine femminile, È tutta un’altra storia, Per una critica delle immagini, Guerrilla media. Nell’ambito del percorso segnato dai titoli, numerosi i film e numerosi anche quelli più rappresentativi che meritano una segnalazione.
Tra le prime ad aderire ad una logica non solo antinarrativa, ma soprattutto utile a definire un proprio status, regola essenziale in chiave decostruttiva della logica dominante, è la compianta Chantal Ackerman che si affaccia alla scena con un breve film di 13 minuti dal titolo Saute ma ville nel quale lo spazio della cucina di casa diventa il luogo della ribellione e il suo spazio angusto il nuovo agorà nel quale marcare la differenza di percezione del ruolo femminile che con quello da sempre si identifica.
La rilettura in chiave storica della condizione femminile ed in particolare della sua classe lavoratrice è l’oggetto di indagine del film forse più interessante ed emblematico della rassegna che meriterebbe non solo un restauro necessario per la sua conservazione, ma una nuova diffusione, tanto costituisce un pregevole pezzo di cinema tout court. Sue Clayton e Jonathan Curling nel 1979 realizzano The song of the shirt nel quale il racconto del lavoro femminile nell’ottocento inglese si manifesta attraverso una stratificazione di materiali che vanno dalle immagini ai disegni, ai testi e un altrettanto paziente lavoro è stato realizzato sulla forma visiva del film che si avvale di una proliferazione di canali mediatici per la sua messa in scena. L’utilizzo di materiali, come i disegni, ad esempio, è perfettamente assonante ai temi del film poiché esattamente rappresentativi dell’immaginario della working class inglese che si nutriva dei racconti illustrati dei feuilleton e la cui iconografia, in chiave quasi dickensiana, restituisce i chiaroscuri di quella condizione. Ma il film diventa soprattutto uno sguardo lucido su quelle condizioni di lavoro e un notevole compendio autoriale di storia sociale guardata da una prospettiva completamente differente rispetto alla storiografia ufficiale.
La poliedrica videoartista Joan Jonas, prima della notorietà internazionale che oggi la distingue, nel 1972 aveva realizzato il complesso Vertical roll in cui lo spazio dello schermo televisivo, all’interno di una instabilità dell’immagine come accade quando la ricezione è insufficiente, ridefinisce anche lo spazio femminile e l’immagine instabile fa da metafora per l’altrettanto instabilità e frantumazione della figura femminile. Un film che riflette l’interesse dell’artista per una visionaria forma d’arte, ma soprattutto reinterpreta la concezione del femminile in chiave mass-mediologica.
Da non dimenticare Sigmund Freud’s Dora. A case of mistaken identity un’opera del 1979 del Jay Street Collective. É il famoso caso freudiano di Dora che, insoddisfatta, abbandonò le sedute psicoanalitiche. Il film, attualizzandone i temi, reinterpreta la storia e la figura di Dora alla luce delle teorie femministe, ma il film è anche una ricerca di intersezioni tra quella vicenda medica e il ruolo dei mass-media. La rilettura del caso avviene in un dialogo serrato tra Freud e Dora, nel quale si intessono, in chiave attualizzante, piccoli frammenti pubblicitari, televisivi e brevi incursioni pornografiche. Una intima ribellione alla struttura fallocratica della psicoanalisi freudiana ritenuta comunque insufficiente rispetto alle nuove prospettive. Un’opera che perfettamente aderisce allo spirito decostruttivo del cinema femminista riguardando i temi del rapporto con le immagini, uno dei nodi centrali di ogni teoria femminista.
Di più esplicita fattura è S.C.U.M. Manifesto del 1976 di Carole Roussopoulos e Delphine Seyrig. Il film è una lunga lettura del manifesto antimaschile tratto dal libro di Valerie Solanas SCUM Manifesto. La semplice messa in scena dove una delle due registe legge (Seyring) e l’altra (Roussopoulos) trascrive con la macchina da scrivere, si fa preciso atto d’accusa davanti al potere maschile e riafferma quella guerra permanente che l’uomo ha portato avanti contro la donna negli anni. Nel film l’utopia immaginata dalla Solanas diventa pratica intellettuale.
Esempio illuminante di quella necessaria decostruzione della società dello spettacolo in chiave femminile e femminista è Rapunzel Let Down Your Hair di Susan Shapiro, Esther Ronay e Francine Winham del 1978. La famosa fiaba viene messa in scena per tre volte attraverso una lettura ad un bambino, attraverso dei disegni e per ultimo reinterpretata in chiave moderna e femminile nel quale il ruolo della strega è assunto dalla figura genitoriale femminile e quello della segregata Rapunzel da una ragazza con aspirazioni artistiche. La fiaba offre l’occasione di rendere chiaro il riferimento alla segregazione culturale delle donne che il racconto originario conserva e che mantiene intatto ancora il suo potenziale.

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