#Pesaro55 – Il cinema come epifania dell’immagine, retrospettiva Claudio Caldini

L’edizione appena conclusasi del Festival di Pesaro ha fatto conoscere il rigoroso cinema di Claudio Caldini.

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L’edizione appena conclusasi del Festival di Pesaro, se almeno un merito ha avuto (ma sono molti, in realtà), è quello di avere fatto conoscere il rigoroso cinema di Claudio Caldini. L’autore, argentino di nascita e formazione culturale, utilizza con sapienza e solido sostrato teorico il Super8 alternandolo con il Single8 che è una simile tecnologia approntata dalla Fuji, ma che assicura una maggiore resa anche in termini di nitidezza dell’immagine. In questo senso Caldini utilizza questi due supporti come componente primario del suo lavoro. Il Super8 e soprattutto il Single8 diventano l’unica via per dare forma alla propria creatività. Questi supporti gli permettono di superare il semplice atto del filmare per dare spazio ad una fervente invenzione visiva attraverso l’utilizzo della tecnica il che conferma le sue notevoli doti artistiche. I suoi film sono stati realizzati a volte con abili e suggestive sovrapposizioni di immagini che Caldini ha ottenuto attraverso semplici dispositivi (con sovrapposizioni di fogli traslucidi, ad esempio) che al contempo attribuiscono il giusto mistero all’immagine consentendo che la tecnica diventi atto essenziale del procedimento creativo.
La sezione Super8 già in passato aveva fatto parte del programma del festival e in questa edizione grazie a Karianne Fiorini e Gianmarco Torri che la curano, torna a occupare uno spazio della Mostra.
Parlare del cinema di Caldini significa soprattutto approfondire i presupposti teorici che lo sorreggono con assoluta costanza. Solo a questo modo si può attribuire il giusto valore al lavoro di questo cineasta silenzioso. Tutto questo non induca a ipotizzare che il cinema del regista argentino sia solo una questione teorica, la intima e istintiva bellezza delle sue opere, comunque percepibili nella loro forma cinematografica (e rintracciabili in parte anche in rete), confermano ampiamente che questo cinema appartiene ad una

sfera essenzialmente privata e quindi viva nella sua intrinseca ricchezza di temi non solo appartenenti alle più attente teorie estetiche.
La bella introduzione al catalogo tratta da un lavoro che Paolo Marin ha pubblicato sull’artista, oltre ad una evidente pregevolezza, si fa decisiva per scandagliare il lavoro di Caldini.
Il cinema di Claudio Caldini è, innanzitutto, una questione estetica. Il suo fare cinema, lontano da ogni più o meno vera e presunta instabilità del mezzo che adopera, diventa presa di coscienza preliminare dell’immagine e solo successivamente processo creativo. Questa sequenza che domina il lavoro del regista argentino è perfettamente resa dallo stesso Marin che scrive: Caldini non filma tanto per girare, non filma per vedere che cosa succede, e non lo fa se l’immagine non gli dice qualcosa (…). In breve, Caldini non filma per sorprendere se stesso ma si potrebbe dire quasi il contrario, sorprende se stesso per filmare. Che cosa significa? Tanto per cominciare, e non per fareun insipido gioco di parole, significa soprattutto che l’attivazione della macchina da presa è l’ultima fase di una sequenza di pensiero molto precisa e profonda: riflette sull’immagine, la crea in conformità con l’ambiente, la cerca (aspettandola o provocandola), e la cattura.
Il breve estratto trascritto ci riporta immediatamente alla concezione prettamente artistica, meglio di evidente processo creativo, che il cinema di Claudio Caldini realizza. Soprattutto rimanda alla ricerca, essenzialmente estetica, di quel cinema che trova una sua profonda stabilità, proprio in questo lavoro anteriore. Un lavoro che peraltro è perfettamente connaturato, poiché fa parte del medesimo processo e che per queste ragioni allontana da sé l’ipotesi del montaggio come pratica della continuità logica del pensiero, al momento stesso del girare, del “catturare” l’immagine per attribuirle quell’epifania del senso così difficile da rappresentare.
In questo senso il cinema di Caldini diventa essenzialmente presa di posizione teorica e ancora meglio definisce il ruolo artistico dell’autore come sperimentatore. I suoi film diventano il luogo dentro il quale sperimentare. L’assoluta padronanza del mezzo e delle sue regole, costituisce però la regola primaria per accedere alla sperimentazione. In questa ulteriore successione del processo è rintracciabile il senso della teoria di Adorno, ripresa da Paolo Marin che serve a definire e ad identificare il senso dell’atto cinematografico di Caldini. Per Adorno la sperimentazione è la coercizione a correre rischi, e questa pratica creativa, aggiungeva il filosofo tedesco, si attua nell’idea dello sperimentale, che al tempo stesso trasferisce dalla scienza all’arte il consapevole disporre dei materiali, contro l’immagine di un procedere inconsciamente organico. Quindi non pura e istintiva invenzione, ma consapevole trasgressione che porta alla violazione di regole date solo attraverso la loro conoscenza e comprensione.
In questo senso il concetto che anima il cinema di Caldini è lo stesso atto del filmare, “l’atto del cogliere” precisa Marin nel suo scritto.
Si comprende quanto spazio resti per approfondire i temi di un corpus di opere, come quello prodotto da Caldini, così connaturato alle decisive teorie estetiche.
Pesaro 55 ne ha offerto un certo numero e in particolare, suddivisi in tre programmi, si sono visti Aspiraciones (1976), Vadi-Samvadi (1981), Ofrenda (1978), Un enano en el jardín (1981), S/T (2007), El devenir de las piedras (1988), Gamelan (1981), La escena circular (1982), Ventana (1975), Baltazar (1975), A través de las ruinas (1982), Lux Taal (2009), Fantasmas Cromáticos (2012, 25’).
Allargare gli orizzonti della visione con componenti sempre differenti è l’anima stessa del Festival di Pesaro e la retrospettiva su questo cineasta ai più sconosciuto, ha perfettamente centrato l’obiettivo, cuore di queste giornate pesaresi.

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