#PesaroFF52 – Città

Dal Concorso di Pesaro due film che offrono due diversi sguardi sulla città, due protagonisti smarriti e due esiti quasi opposti

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Dalla Repubblica Ceca all’Egitto, dentro i malesseri di un giovane afflitto da un disagio mentale e nella composita forma urbana di Il Cairo città alla ricerca di una propria vera dimensione stretta tra le spinte di modernizzazione e i retaggi che ne trattengono questa evoluzione, i due film del Concorso accomunati da una congiunzione urbana che assottiglia le differenze tra due film diversissimi.
David del ceco Jan Tĕšitel è la storia di una fuga del giovane protagonista che si vuole affrancare da una famiglia che sente oppressiva e che in fondo non comprende fino in fondo dei suoi problemi, nonostante l’affetto che gli viene dimostrato. La fuga si concluderà poco prima del dramma e David tornerà a respirare l’affetto familiare.
Sempre difficile confrontarsi con il tema della malattia mentale e sicuramente Tĕšitel mette tutte le cose in ordine, al suo film non può essere imputato quasi nulla e anzi riesce a lavorare molto attraverso la sintesi con cui, ridotti i tempi narrativi essenziali, può esserci il tempo per dedicarsi alle trasparenti emozioni del suo protagonista dentro la città che si offre in tutta la sua pericolosa consistenza. Ed è David, Jan Tĕšitelproprio la città, con le sue insidie celate e impreviste, a cogliere il giovane e sprovveduto protagonista impreparato davanti alla mole di problemi della vita cittadina. Il confronto tra David e la città è molto duro ed entrambi sembrano invisibili, la città irriconoscibile agli occhi dello spettatore e David invisibile agli occhi dei suoi abitanti. David, quindi è un film che ha tutte le cose a posto, compreso il giovane attore Patrik Holubář che conferisce al suo protagonista uno sguardo smarrito indimenticabile. Un film che riconcilia David nel finale, al caldo degli affetti, ma, ci domandiamo, se l’esito cronachistico del ritorno a casa del protagonista ci soddisfa come spettatori è sicuro che ci soddisfi anche sotto un profilo più strettamente comunicativo? Tenuto conto che il cinema bene o male appartiene a questa genia. Un film discreto che contiene una sua umiltà di fondo, ma che purtroppo non graffia e non lascia il segno e il nostro David silenzioso che ripete tutti i numeri di telefono a memoria continuerà a vagare in solitudine nella grande città come un piccolo animale impaurito, invisibile a tutti e percepito soltanto quando deve diventare oggetto di scherno. Tĕšitel aveva materiale a disposizione, aveva imbroccato la via giusta per un cupo dramma di un’anima, ha

In the last days of the citypreferito imboccare poi il percorso più semplice e più appagante. Sicuramente ci riproverà.
Con altro piglio il regista e giornalista Tamer El Said affronta la complessa situazione egiziana con In the last days of the city. Per farlo racconta la storia di Khalid che fa il documentarista nell’Egitto del 2009. Tre amici, che rappresentano la questione mediorientale, vanno a trovarlo, il film diventa un’occasione per riflettere su questo lembo di terra e poi su Il Cairo in particolare. Khalid, nonostante la voglia di fuggire è rimasto e il suo tentativo è quello di realizzare un documentario sulla città nella quale sembra essere sempre più estraneo e nella quale non concretizza né l’amore, ma neppure il desiderio di trovare una nuova casa adatta alle sue necessità, nonostante il suo peregrinare con un improvvisato agente immobiliare. Il cinema del quarantacinquenne regista egiziano è molto meditato, nasce da una vera e propria esigenza personale, lo si percepisce per i molti interrogativi che pone, per le soluzioni che non può, non sa e in fondo, non deve proporre, lo si intende dalla robusta capacità di sintesi che le immagini restituiscono e dalla capacità di In the last days of the city_1catturare, attraverso questa sintesi, ma in un film di quasi due ore, i piccoli movimenti dell’anima di Khalid, giovane intellettuale in fondo disadattato nella sua città, metaforicamente alla ricerca di un’altra casa che è quella di una nuova condizione esistenziale. Film di sicura bellezza estetica, con i toni discreti di una fotografia lievemente virata al giallo del deserto che cattura la luce dei luoghi e che privilegia alternativamente i primi piani di Khalid e uno sguardo profondo sulla città. Le cronache ci dicono che questo esordio, già maturo di El Said è stato in gestazione per nove anni e sicuramente in questo tempo avrà assorbito i mutamenti e il precipitare di una situazione politica mediorientale di cui l’Egitto è la porta. Nel film siamo ancora all’epoca di Mubarak, ma si avvertono i primi rumori da Piazza Tahrir anche se ancora si percepiscono dai notiziari radiofonici che imbevono della contemporaneità storica il trattamento della vicenda, le piccole astuzie del potere, il fumo gettato in faccia al Paese dimostrandone la condiscendenza quando si occupa di calcio e tifa per la propria squadra nazionale. Ma Il Cairo sembra lentamente sprofondare e El Said riesce a catturare questa febbre che porterà prima o poi ad un mutamento che, con gli occhi di oggi, sappiamo si sarebbe rivelato perfino più dannoso. Ma l’autore ci fa respirare quest’aria di vigilia, l’inquietudine di Khalid che non riesce a chiudere il suo documentario sulla sua città diventa la nostra e così anche il In  the last days of the city_2dolore per la perdita degli amici, in una lontananza che sembra immobilizzare i loro pensieri. In the last days of the city si esprime in queste metafore, in questo spazio delle emozioni che ad un certo punto sembrano preludere all’addio alla vita per Khalid. El Said sa coglierne le pieghe, le paure, il senso di sfinimento che sembra aggredire il protagonista quando si stende accanto alla madre morente come l’Egitto, in ospedale, mostrando la sua malattia e il suo pallore esistenziale.

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