#PesaroFF52 – Nomadi

Ha il sapore delle cose buone, ha l’aspetto delle cose di un tempo, ha dentro il rumore inesauribile della vita, Les ogres il secondo film di Léa Fehner

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Ha il sapore delle cose buone, ha l’aspetto delle cose di un tempo, ha dentro il rumore inesauribile della vita e soprattutto la mette in scena cercando sapientemente tra le sue pieghe lo scorrere dei sentimenti che ne arricchiscono quotidianamente il percorso, è Les ogres il secondo film di Léa Fehner, premiato dal pubblico al Festival di Rotterdam che guarda alla sua biografia di figlia di attori di una compagnia teatrale itinerante.
Les ogres è un film essenzialmente corale che riesce a definire i contorni disordinati della vita attraverso gli amori, le Les ogres_1delusioni, i legami, le nascite e i tradimenti che legano e sciolgono i suoi protagonisti. Les ogres è un film che restituisce l’entusiasmo della vita e lo racconta con la sincerità essenziale e autentica di un amore sconfinato per quel nomadismo che si traduce in (in)stabilità dell’anima, ma nella dura e consapevole stabilità assoluta dei sentimenti che come tutte le cose del mondo possono solo cambiare e atteggiarsi in forme ed espressioni differenti.
Il film della giovane regista francese riesce a fremere di vita propria e fare fremere di quella stessa vita le immagini che raccontano le peregrinazioni artistiche dei suoi personaggi. La compagnia teatrale Davai mette in scena il Cabaret Checov e nel loro tendone ogni sera il pubblico assiste allo spettacolo, ma è dietro le quinte il vero spettacolo della vita, la dove gli attori sedimentano le loro passioni e le loro nature, in questo apparente dietro le quinte ogni giorno si consuma un piccolo dramma, si assiste al nascere di un nuovo legame d’amore o d’amicizia, si vivono le incomprensioni familiari e si continuerà così anche quando qualcuno partirò e quando qualcuno arriverà sia esso un ritorno o una nascita. La Compagnia Davai continuerà a mettere in scena la vita. Léa

Les ogresFehner tiene tutto sotto controllo e il suo lungo e rutilante film distende il suo racconto per oltre due ore senza una pausa, senza un cedimento, senza un momento di sosta con un registro sempre molto alto che contamina lo spettatore attraverso le vicende autobiografiche che vediamo nel film. Profilo biografico che si estende anche agli attori visto che il padre della regista François Fehner interpreta con magistrale destrezza il capo del manipolo di attori che ogni sera racconta al proprio pubblico la bellezza goliardica del teatro di Checov. Visto nella sezione del Concorso non resta che sperare in una distribuzione italiana a volte incerta su queste produzioni francesi (e si potrebbe fare un lungo elenco) forse perché vivaci e originali ed estranei ad un cliché che fa della seriosa composizione il pregiudizio che dalle nostre parti spesso si nutre verso quel cinema.

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Nella stessa sezione principale il film d’esordio di Suranga Deshapriya Katugampala nato in Sri Lanka, ma vissuto in Italia sin dalla prima infanzia. Regista laureato in informatica che coltiva la passione per il cinema. Dopo i primissimi lavori Per un figlio, il film in Concorso a Pesaro, è il suo esordio nel lungometraggio.
Sunita fa la badante, ha un figlio adolescente che si trova a Per un figlio, Suranga Deshapriya Katugampalavivere a cavallo tra due culture così lontane. Per la madre questa condizione è fonte di conflitti e di timori per il futuro. Il ragazzo frequenta cattive compagnie dalle quali trae i peggiori comportamenti e porta con sé una inspiegabile inquietudine che la madre, obbligata ad un lavoro faticoso, riesce con fatica a dominare.
Il nomadismo di Sunita è obbligato dalla fuga dal suo Paese e la sua condizione la rende infelice. Per un figlio è un film basico, essenziale, di un realismo del tutto primitivo, ma innegabilmente dotato di una certa efficacia, grazie soprattutto a Kaushalya Fernando attrice popolare in Sri Lanka, qui sicura nel restituire le quotidiane angosce interiori della sua condizione e il tormento che le da il figlio. Girato nella provincia veneta, privilegiando i toni dimessi di quelle ambientazioni, il giovane regista è sembrato consapevole di essere un esordiente raccontando ciò che conosce molto bene, ciò che fa parte della sua vita, senza alcuna voglia di strafare, ma dedicandosi soprattutto alla messa in scena, allo sguardo dentro gli anfratti stretti degli appartamenti in cui vive la sua protagonista, riuscendo a raccontare la vita asfittica e senza sorprese di una intera generazione di nomadi di necessità.

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