#PesaroFF54 – Umano non umano, di Mario Schifano

Forse il capolavoro di Schifano, girato nel sempre più lontano 35 mm, diventa manifesto antesignano dei tempi e conserva ancora oggi a cinquant’anni di distanza la forza trasgressiva

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Si considerino formidabili o meno, quegli anni che dal 1967 ci hanno portato agli anni ‘80, è questione del tutto soggettiva, anzi privata, che poco influisce su un dato oggettivo che è quello di una ricchezza di produzione artistica e di una vera e propria attivazione di quella contaminazione di arti e artisti che incrociavano discipline ulteriori e forme di comunicazione differenti rispetto a quelle di appartenenza. A quegli anni, così controversi, appartiene Umano non umano del 1969 che è sicuramente il più famoso film della Trilogia per un massacro di Mario Schifano. Gli altri due film sono il precedente Satellite del 1968 e Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani anche questo del 1969. Il Festival di Pesaro nella retrospettiva dedicata ad una rilettura artistica del 1968 ripropone Umano non umano, ma costantemente fa riferimento a Schifano con il nome della sezione Satellite, direttamente ispirata al titolo del suo film.
Gli esperimenti cinematografici di Mario Schifano, pittore della avanguardia italiana e soprattutto esponente della corrente pop degli anni ‘60 dello scorso secolo che vedeva al suo fianco altri artisti come Franco Angeli o Mimmo Rotella, costituiscono un mirabile e non imitabile esempio di questa ricerca. Umano non umano diventa il paradigma universale di questa ricercata complessità che sembrava dovesse permeare ogni disciplina e fare davvero di ogni produzione artistica un’opera aperta sia alla comprensione multidirezionale, sia come catalizzatore di forme artistiche differenti, sia come strumento disponibile alla comprensione dei fenomeni sociali. È in questa corrente di pensiero artistico che si inserisce il film di Schifano che non è mai forma morta di una solitudine artistica, vera o presunta, ma complessa sedimentazione di materia viva che conserva questa ricchezza anche alla successiva visione a cinquant’anni dalla sua creazione.

L’inquietudine artistica ha portato Schifano a sperimentare il cinema come forma complessa di espressione e soprattutto come prosecuzione di una ricerca artistica che per lui significava fare confluire nell’opera così concepita gli insegnamenti di Wharol e la sedimentazione politica di quegli anni.
Umano non umano, forse il suo capolavoro, nasce proprio da queste riflessioni sulla forma d’arte che vuole essere ostinatamente popolare, utilizzando anche quelle espressioni così comuni e inserendole all’interno di elaborazioni in cui assumono altre forme e altri significati procedendo attraverso un processo di accumulazione di materiali che da disparate fonti ricostruiscano, come in un flusso anche informativo, la novità della percezione multidirezionale che in quegli sembrava affermarsi come forma di partecipazione del fruitore. Oggi è la struttura di una trasmissione come Blob, dell’amico di Schifano, Enrico Ghezzi a mutuare quei procedimenti.
Era l’immaginario artistico che attraverso l’organica partecipazione alla vita collettiva si nutriva, allo stesso modo di lotte sindacali di rivendicazione di diritti e di quella libertà borghese che si manifestava nelle prime esibizioni pubbliche di quella acquisita consapevolezza del benessere da mostrare come forma esclusiva di appartenenza a quella classe. Mario Schifano era artista sensibile e disponibile alla disparata percezione e in questo anche la sua dispersione d’artista. Umano non umano in questa prospettiva diventa anche il cinema che manifesta il suo documentare ed è per questo che Schifano incrocia Adriano Aprà e Carmelo Bene, Mick Jagger e Keith Richards, non solo come artisti la cui frequentazione era consueta, ma come espressioni di una cultura che in quegli anni si imponeva all’attenzione nelle forme più comuni, ma anche attraverso percorsi insoliti e fino all’epoca impensabili. Spettava al cinema documentare questa presenza, questa limpida essenza di controcultura rispetto a quella ufficiale. Il film di Schifano diventa capostipite di successive e sempre variegate forme di sperimentazione e il suo procedere attraverso il recupero di immagini raccolte dai resoconti giornalistici, piuttosto che da programmi televisivi di puro intrattenimento, diventa paradigma di un metodo, espressione di un comune sentire. Schifano traduce al cinema la sua anima pop e se il suo procedere appariva inusuale ai suoi tempi è proprio il tempo a consolidare, invece, quelle forme espressive che con l’andare degli anni sarebbero diventate comuni all’interno di una area artistica che utilizzando gli stessi codici espressivi e le medesime strutture antinarrative, istituiva percorsi e interpretazioni successive. Al tempo stesso Umano non umano, evidenzia la natura personalissima dell’opera, mettendo a nudo l’intento politico del suo autore e sopra ogni cosa il legame con il fluire degli eventi, popolato dai personaggi che segnavano la cultura di quegli anni dalla silenziosa presenza di Moravia, alla inattesa loquacità dimessa di Sandro Penna. Schifano introduce questi materiali e come suggeriva Adriano Aprà con Piero Spila: Umano non umano è il film del futuro utopistico, quindi armonico e ottimista. Visto da un’ottica siderale. Come non condividere il senso di queste parole soprattutto se il film di Schifano, non solo costituisce un’analisi precisa, da un’ottica personalissima e filtrata da quella eretica dello sguardo, erotismo degli intenti ed erraticità artistica per dirla con Bonito Oliva che per l’appunto per sintetizzare l’artista diceva che fosse eretico, erotico, erratico.
Umano non umano, girato nel sempre più lontano 35 mm, diventa manifesto antesignano dei tempi e conserva ancora oggi a cinquant’anni di distanza la forza trasgressiva delle pulsioni che lo animano, il desiderio di entrare nella vita sociale e di restituirne l’instabilità, delle forme di ripudio della guerra che trasformano le immagini dal Vietnam, guerra per antonomasia, in archetipo insostituibile per un successivo movimento pacifista, che introduce il tema dell’intrattenimento televisivo, attraverso la sgranatura dell’esibizione, non casuale, di Patty Pravo, affidando a quelle immagini il senso di una condivisione di intenti.
In questa ottica il film di Schifano appartiene a pieno titolo alla sezione Sperimentare il ‘68, curata da Federico Rossin, se queste opere debbano decostruire il presente attraverso la metodologia di quegli artisti e di quel pensiero, oggi così latitante.

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