#PesaroFF56 – Il n’y aura plus de nuit, di Eléonore Weber
Fino a dove possiamo spingere il desiderio di guardare, laddove non abbiamo limiti? Premiato al PesaroFF56 un’opera straordinaria in cui si legge la storia della guerra e insieme quella del cinema

Vilano Beach, Stati Uniti. Non è né mattina, né pomeriggio, né il calar della sera. Eppure lo sembra. Solo le stelle che brillano in cielo svelano l’inganno. Un trompe l’oeil micidiale. Sono le conquiste della scienza positivisticamente intesa, il miracolo di una nuova videocamera ‘effetto giorno’ in grado di sopprimere la notte, persino la sua dimensione antropologica. Lontano dalle tenebre non ci si può nascondere, tutto è ormai perfettamente visibile, mai al riparo dallo sguardo. Il n’y aura plus de nuit, «non ci sarà più la notte, e nemmeno il bisogno di una lampada o della luce solare». Una wasteland dominata dalle tecnologie biopolitiche in cui «non ci sarà più distanza. Né il vicino né il lontano».
È la profezia con cui Eléonore Weber, autrice e regista cinematografica e teatrale con alle spalle studi in diritto e filosofia politica, chiude il suo secondo lungometraggio presentato qualche giorno fa in concorso alla 56° edizione della Mostra del Cinema di Pesaro. Un’opera in cui si legge insieme la storia della guerra e quella del cinema stesso, frutto di un lungo lavoro di ricerca nei meandri del web, dove ogni immagine, persino quella più cruda e violenta, è custodita: sono molti infatti i video di missioni militari che popolano YouTube ed altre piattaforme gestite da privati e che hanno dato vita ad un vero e proprio genere a sé stante. È qui che ha operato l’artista per comporre il suo film, dando vita ad un found footage unico che cucendo chirurgicamente insieme immagini registrate dalle telecamere degli elicotteri francesi e statunitensi in missione in Iraq, Siria e Afghanistan, con testimonianze di un anonimo soldato, che prende il nome fittizio di Pierre V., ci conferma prima di tutto quanto la guerra odierna sia sproporzionata e ingiusta.
L’homo homini lupus non esiste più. Aiutato da nuovi dispositivi di registrazione, sofisticati dispositivi di ultima generazione prontamente venduti agli eserciti ed usati nella guerra contro i ‘terroristi’, missili a lunga gittata, armi ultratecnologiche, l’uomo contemporaneo preferisce evitare lo scontro, il faccia a faccia trinceresco; qualsiasi idea di reciprocità è obsoleta, non c’è che distanza. Dall’alto della sua impunità il cecchino, paradigma dell’asimmetria bellica contemporanea osserva tramite il mirino i suoi obiettivi, piccole silhouette luminescenti in un pallido scenario lunare, obiettivi dai volti invisibili, pronto ad emettere la sua sentenza di morte.
È vero quello che vediamo? Domanda curiosa da porsi al cinema…
L’impressione è forse quella di essere i protagonisti di un videogioco, rapiti da immagini guerresche e stranianti, non di natali cinematografici. Immagini in tempo reale, che si fanno cinema solo in un secondo momento. Ma d’altronde guerra e cinema formano sin dagli albori della cinematografia un binomio perfetto e rodato che continua a generare, anche in tempi recentissimi, riflessioni sulla tecnica e la fenomenologia della percezione – basti pensare a 1917, di Sam Mendes -. L’artista francese però si spinge oltre, intraprendendo una doppia strada insieme etica e (meta)linguistica che s’interroga e ci interroga: fino a dove si può spingere il desiderio di vedere, soprattutto se esercitato senza limiti e nella totale impunità? Sotto accusa è qui la pulsione scopica, erotica e mortifera, di colui (?) che guarda, sempre pronto a tradire un certo gusto nell’uccidere, proprio come i piloti che «si attardano sulla scena del crimine, volteggiando sopra i morti» come avvoltoi sulle carcasse. E se altri film, spesso provenienti dall’area mediorientale e mediterranea si sono appropriati della soggettiva per rendere ancora più vera, umana ed intima la tragedia della guerra vissuta sulla propria pelle, – come quella di una madre che decide di salvare la propria figlia – piegando a proprio vantaggio i pochi mezzi a propria disposizione, l’universo filmico di Weber ci colloca al contrario in un’inquietante limbo tra iperrealtà e distopia, in cui persino giorno e notte si confondono.
In questo presente da incubo non c’è più soluzione di continuità tra essere umano senziente e macchina, e l’occhio-arma, cyborg, attraversa e abbandona ogni umanità per proiettarsi ormai nell’abisso del post-umano.