#PesaroFF58 – Incontro con Mario Martone

In occasione della retrospettiva a lui dedicata, il regista di Nostalgia ha incontrato il pubblico pesarese insieme ad alcuni dei suoi collaboratori e studiosi del suo cinema

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Dopo un’edizione dedicata al cinema di Liliana Cavani, questo è stato l’anno di Mario Martone. Il Pesaro Film Festival nella sua edizione 2022 ha infatti deciso di dedicare una serie di eventi al regista napoletano. Tra questi, una serie di proiezioni dei suoi film e un’opera unica nel suo genere, un film flusso con materiali di ogni genere della durata di 10 ore, presentato per la prima volta al Museo Madre di Napoli nel 2018, a cura di Gianluca Riccio.

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Pedro Armocida, direttore del festival e Giona A. Nazzaro, curatori del volume Mario Martone. Il cinema e i film hanno moderato l’incontro, al quale hanno partecipato, oltre a Martone e alla sceneggiatrice Ippolita Di Majo, anche molti personaggi vicini al regista italiano. Giona A. Nazzaro ha paragonato il lavoro di Martone a quello di Godard, dal punto di vista del passare da un progetto all’altro, anche muovendosi fra diversi ambiti. Martone ha parlato dell’importanza dell’amicizia e della collaborazione nel cinema, non solo fra le persone che lavorano ad uno stesso film, ma anche fra regista e critici. Questo elemento è stato ripreso da Iaia Forte, attrice con cui Martone ha più volte lavorato, la quale ha rievocato l’esperienza del Falso Movimento prima e dei Teatri Uniti poi, parlando di quanto la collaborazione artistica e umana sia stata fondamentale e di come oggi ne senta la mancanza. Ragionando su queste esperienze, Martone ha spiegato come i suoi film siano tutti in qualche modo connessi fra loro: “Senza Il sindaco del Rione Sanità non ci sarebbe Nostalgia, ma senza l’esperienza teatrale non ci sarebbe stato Qui rido io. Senza il lavoro con Iaia sulle Operette morali non ci sarebbe stato Il giovane favoloso, il quale a sua volta mi ha riportato a Napoli.” Riguardo a Nostalgia, il regista ha inoltre confessato di averlo in qualche modo modellato su Pierfrancesco Favino. Infine Martone ha definito il suo lavoro come qualcosa a metà fra il giardiniere e il mago, in cui è necessario “disporre gli elementi in maniera corretta, ma poi arriva il confronto con l’imponderabile“.

Renato Berta, direttore della fotografia di tre fra i più importanti film di Martone, ha narrato l’inizio della loro collaborazione e ha speso diverse parole sul rapporto fra Martone e gli attori, uno degli aspetti che lo ha colpito sin da subito: “Il rapporto con gli attori è importante per il regista, ma lo è anche per me in quanto direttore della fotografia“. A detta di Berta, Martone ha una bravura particolare nel gestire gli attori e nel creare il giusto rapporto sul set. A tal proposito, ad una domanda sulla scelta fra attori di cinema e teatro, il cineasta ha spiegato come lui non percepisca una differenza così forte tra attori di cinema, di teatro o addirittura di televisione, ma veda in realtà un attore in maniera “anglosassone”, ovvero semplicemente come un attore, a prescindere dal resto. Come risposta alle parole di Renato Berta, Martone ha lodato il direttore alla fotografia per l’abilità di gestire situazioni complesse. Ha portato come esempio il secondo episodio di Noi credevamo ambientato in un carcere, luogo scomodo e buio, il quale comportava per Berta svariati rischi fotografici: “Quello era un luogo che avrei potuto girare ricostruendolo, ma non è affatto la stessa cosa, volevo che gli attori provassero quelle sensazioni”. Inoltre Martone ha parlato dei “tre linguaggi diversi” che si trova ad utilizzare nella sua carriera: il cinema, il teatro e l’opera, definendoli: “tre cantieri che hanno delle porte aperte e che quindi comunicano.” Questo suo lavorare su più fronti deriva dalla sua frenesia e dalla sua voglia di fare, la regola è infatti quella di non porsi limiti e non fermarsi, in stile pasoliniano. Però “ogni progetto nasce già con il suo linguaggio e la sua destinazione“, ha concluso.

Martone ha sottolineato l’importanza del lavoro di ricerca svolto insieme alla sua sceneggiatrice Ippolita di Majo e di come una sceneggiatura non riguardi soltanto il processo di scrittura, bensì un impegno ben più grande. Il regista non ha poi negato il sentimento che lega i due: “l’amore è una benzina come non ce ne sono di più potenti al mondo”. Dal tempo di Morte di un matematico napoletano Martone ha dichiarato di non aver mai scritto senza conoscere i luoghi dove avrebbe girato, definendo “la sceneggiatura una mappa. Non è mai finita, anche quando ci sono le riprese. Più la mappa è dettagliata, più ti puoi perdere nel viaggio, perché conosci anche le zone oscure.” E parlando di Ippolita di Majo: “Da una parte lei ha l’approccio della studiosa, molto attenta, dall’altro ha un calore che io non ho.” Infine Martone ha spiegato come alcune scelte filmiche derivino da eventi vissuti davvero dalla coppia, come la serie di tre quadri di una pittrice egiziana degli anni ’70, visti dai due al Cairo nel 2010, rimessi poi in una scena in Nostalgia. La sceneggiatrice ha infine parlato delle difficoltà di inserimento di parole dal greco nel Giovane favoloso e di come, ad esempio, la scelta della parola “omphalos” le sia venuta cercando all’interno dell’Odissea, mettendo in luce come il processo creativo che porta ad una sceneggiatura coinvolga moltissimi ambiti prima di portare al risultato finale.

Ad una domanda di Bruno Di Marino, Martone, parlando di Napoli, ha spiegato come un film, o un romanzo ambientato in un certo luogo sia necessariamente caratteristico e pieno di specificità fondamentali, ma allo stesso tempo debba risultare universale. “Un film interessante parla a te, ma uno bello parla di te” ha poi concluso. In seguito ad una provocatoria domanda del pubblico riguardante la scelta di rappresentare l’Infinito tramite il volto di Elio Germano ne Il giovane favoloso, Martone ha risposto: “Tutto ciò che scrive Leopardi è autobiografico e in un certo senso questo lo rende un precursore dei tempi. Leopardi scrive l’Infinito in un momento molto particolare, quando era a Recanati dopo che Pietro Giordani se ne era andato e dopo che era morta Teresa Fattorini, l’immortale “Silvia”. In quel momento Leopardi ha pensato di essere obbligato a restare a Recanati per sempre, nell’abisso più profondo. Io chiaramente l’infinito non posso rappresentarlo, come non può farlo nemmeno il più grande regista del mondo. Ma siccome l’Infinito è anche una fotografia, ho voluto rappresentare Leopardi proprio nel modo esatto con cui lui si è autodescritto.”

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