"Piano 17" di Antonio e Marco Manetti

“Piano 17” scivola via con grande sicurezza: un'ora e mezza che scorre liscia, non senza qualche lungaggine come l'eccessiva ripetizione di alcune gag e un finale da snellire, ma che permette di abbandonarsi a quella gioia della narrazione pura che poi è l'essenza del cinema di genere.

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Per distruggere alcuni documenti su incarico di un misterioso committente, un rapinatore (Morelli), travestito da addetto alle pulizie, si infiltra in un palazzo per piazzare una bomba all'ultimo piano. A causa di un blackout si ritrova chiuso nell'ascensore con un impiegato (Soleri) e la segretaria che se la fa con il capo (Rocchetti). I suoi complici Pittana e Borgia (Silvestrin e Iuorio), che lo attendono di sotto, non fanno tutto il possibile per scongiurare il pericolo: forse c'è un traditore…

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Zora la vampira, esordio cinematografico di Marco e Antonio Manetti, è stato criticato a nostro avviso con eccessiva acredine. Il film funzionava: e non è cosa da poco, considerando che il problema di molti tra i migliori film italiani degli ultimi anni è che, pur brillando per altre qualità, funzionano faticosamente, a singhiozzo, rumorosamente. Il loro meccanismo si inceppa nello sprint finale (Le conseguenze dell'amore), oppure si ammala d'ipertrofia (Nemmeno il destino). Zora era una macchina filmica leggera, un'utilitaria fantozziana che non si spingeva oltre la terza marcia, ma aveva il pregio di un'andatura costante e priva di intoppi. Piano 17 prosegue la stessa strada con maggiore sicurezza: un'ora e mezza che scorre liscia, non senza qualche lungaggine come l'eccessiva ripetizione di alcune gag e un finale da snellire, ma che permette di abbandonarsi a quella gioia della narrazione pura che poi è l'essenza del cinema di genere. Tutt'altro che lineare è la costruzione, intessuta di flashback a incastro ma chiusa dal più classico dei timelock (il timer di una bomba), capace di giocare con gli stereotipi del noir senza strafare né cadere nella trappola della ruffianeria clippara alla Guy Ritchie. Non sono meno clippari né più ingenui dell'inglese, i Manetti, ma sembrano vittime  di un timore che rischia di diventare il loro limite: il timore di prendersi troppo sul serio. I richiami cinefili ai maestri italiani (Castellari come guardia giurata, le divise "Di Leo" degli idraulici), il gusto goliardico per le comparsate (Mastandrea come ambulante napoletano), l'insistenza sulle mutande della Rocchetti: private jokes dietro ai quali rifugiarsi, stampelle senza le quali il film si reggerebbe in piedi senza incertezze. I Manetti dovrebbero davvero lasciarsi alle spalle una pur condivisibile nostalgia cinematografica e lanciarsi nel noir del futuro: sono tra i pochissimi in Italia a poterselo permettere. Ciò detto, massimo rispetto per un film a zero budget, completamente indipendente e frutto di congiunti sforzi produttivi, che per qualità della confezione e costruzione del racconto ha poco da invidiare ai mirabolanti cugini francesi. E massimo rispetto per la Rocchetti, consacrata a diva di un'auspicabile rinascita italiana del genere, e come tale oggetto di insulti, violenze e insani appetiti…

Regia: Antonio e Marco Manetti


Interpreti: Giampaolo Morelli, Elisabetta Rocchetti, Enrico Silvestrin, Giuseppe Soleri, Antonino Iuorio


Distribuzione: Moviemax


Durata: 105'


Origine: Italia, 2005

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