PIFAN 2004 – 8a edizione del Puchon International Fantastic Film Festival (Corea del Sud)

Vince "Arahan" di Ryoo Seung-wan, film commerciale ben eseguito, con direzione dinamica, interpreti affiatati e convinti. Nulla purtroppo per l'irriverente "Gagam Boy" del filippino Erik Matti e soprattutto per quel piccolo inestimabile gioiello che è "Little Men" del kazakho Nariman Turebayev, Bildungsroman dolceamaro, irresistibile e toccante.

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L'ottava edizione del Puchon International Fantastic Film Festival (Pifan) si è conclusa sabato scorso con un'anteprima a sorpresa che ha posto il sigillo alla manifestazione, dopo due giorni di post-festival, seguiti alla chiusura ufficiale con cerimonia d'assegnazione dei premi. Accolta con incondizionato e rapito entusiasmo del pubblico locale, la prima mondiale in questione era Cut, il nuovo lavoro del regista di Old Boy e Sympathy for Mr Vengeance, nonché nuovo eroe nazionale della Corea del Sud dopo il Grand Prix di Cannes, Park Chan-wook. Segmento del trittico horror del nuovo episodio della serie Three (film horror collettivi firmati da registi asiatici: il primo aveva visto i contributi di Peter Chan Ho-sun, Kim Jee-won e Nonzee Nimibutr), che sarà completato dall'honkonghese Fruit Chan e dal giapponese Miike Takashi, Cut torna ancora sul luogo del delitto con una storia di vendetta nel mondo del cinema, tutta sul set, della cui trama è meglio non rivelare nulla. Vale la pena invece di registrare la conferma della maestria di Park, dell'assoluto controllo sul mezzo cinema, sulla costruzione del visivo in termini di spazialità e campitura figurativa che, combinati ad un sound design d'impatto devastante (che ora asseconda la diegesi, ora vi gioca contro) ed una spesso spiazzante concatenazione dei piani e del movimento interno ad essi, fanno di Park uno trai registi più tecnicamente interessanti e proficui di tutto il panorama mondiale. Anche il registro spurio, tipicamente coreano, che in Park combina ironia e violenza per taluni insostenibile, si ritrova in un corto che certo non dissiperà le riserve di chi già non ha digerito i suoi film precedenti. E' però doveroso rilevare come Park, al contrario di molti altri, molto ammirati, sovrastrutturati e sovrastimati manipolatori del cinema internazionale (leggi Von Trier e Tarantino), sa scavare con inaudita, scorticante pregnanza nelle pieghe del dolore e dell'insensata spinta compulsoria alla violenza. Il suo cinema fa male, non conosce catarsi, non è messo in movimento da astuto ed irresponsabile luddismo, al contrario di quello d'altri recenti "cantori" della vendetta; il discrimine sta nel suo essere dettato da una preoccupazione morale, che gli altri ignorano del tutto.

Park a parte, i premi del festival, come già lo scorso anno con Save the Green Planet! di Jang Jun-hwan, hanno registrato un doppio trionfo locale con primo premio e premio del pubblico ad Arahan di Ryoo Seung-wan. A good piece of entertainement, direbbero gli anglosassoni: un film commerciale ben eseguito, con direzione dinamica, interpreti affiatati e convinti (il fratello del regista Ryoo Seung-bum, il grande veterano Ahn Sung-ki), computer graphics utilizzata con dovuta efficacia ed un intreccio che mixa abilmente azione ed ironia attorno ad una congrega di millenari maestri taoisti che cercano un nuovo maestro per contrastare la riapparizione di un potentissimo spirito maligno, trovandolo in un imbranato e occhialuto agente di polizia. Cucito addosso allo charme stralunato del Ryoo attore, in un ruolo che ricorda per molti versi quello del fortunato Conduct Zero, Arahan trae profitto da una messa in scena che privilegia durata a frammentazione nelle sequenze d'azione, con l'intento di rendere pienamente apprezzabili stunt e CG. Niente di che forse, ma un film godibile molto al di sopra degli ultimi standard hollywoodiani.


Altri riconoscimenti al giapponese Cha no Aji (The Taste of Tea) di Ishii Katsuhito (Premio della Giuria), già visto alla Quinzaine di Cannes e amatissimo dal pubblico coreano, proprio per quell'imprinting narrativo e formale manga molto pronunciato e sempre esibito, che a chi scrive fa invece detestare un film troppo dispersivo, anodino e affogato nel cliché, all'argentino Buena Vida Delivery di Leonardo Di Cesare (Miglior Regia), tragicommedia riuscita, seppur non memorabile, sull'Argentina della crisi economica (è più divertente e stilisticamente corposo il sapido Los Guantes Magicos di Martin Rejtman, vecchia conoscenza dei festivalieri, anch'esso al Pifan), alla commedia franco belga Aaltra, on the road su sedia a rotelle, in B&N e con cameo di Kaurismäki, per gli attori-registi Gustave Kervern e Benoît Delepine, e allo strampalato thailandese My Suicide di Thosapol Siriwiwat, per l'attrice Nat Wattanapat, in quello che pare un giocoso fraintendimento della giuria sul premio alla "miglior attrice", certo la più bella, ma sindacabilmente la più brava. Nulla purtroppo per l'irriverente Gagam Boy del filippino Erik Matti e soprattutto per quel piccolo inestimabile gioiello che è Malen'kie Ljudi (Little Men) del kazakho Nariman Turebayev, Bildungsroman dolceamaro, irresistibile e toccante tra sensibilità ed ironia alla Truffaut e asciuttezza di stile alla Bresson nella Almaty post-comunista.


 

La giuria dei corti, tutta coreana e presieduta da Jang Jun-hwan, ha accordato i suoi favori all'inglese Goodbye Cruel World di Vito Rocco e al tedesco My Parents di Neele Leana Vollmar, due film di consumata scrittura; peccato che in stile di cinema i migliori in gara fossero proprio i due coreani: l'intrigante Fill in the Blanks dell'ex assistente di Hong Sang-soo Kim Youn-sung, elegantissimo mystery B&N su un vagone di treno dove si tratta proprio di riempire i vuoti di un complotto che i protagonisti si sussurrato alle orecchie e l'urticante, seppur effettistico, Fingerprint di Cho Gyu-oak, inferno psicologico di un giovane fotocopista traumatizzato. Tra i molti corti coreani in mostra una menzione di doverosa importanza per Sunheun (Una Macchia Cremisi) di Park Hyun-jin che ambienta con lirica essenzialità figurativa un romance omosessuale in epoca Choseon: gesto di cinema coraggioso in un paese in cui per storia e tradizione "i gay non esistono".


Il gala di premiazione del festival, che nel suo programma ha incluso pure omaggi alle produzioni Shaw Bros., al trentennale della Troma, al tedesco Jörg Buttgereit, e una monografica sui pionieri dell'animazione giapponese, è stato completato dalla prima mondiale di Bunshinsaba, nuovo horror di Ahn Byung-ki, il regista di quel Phone che tanta (immeritata) fortuna ha incontrato nelle nostre sale. Nel suo nuovo, tritissimo, ripetitivo e (troppo) lungo (120') film, Ahn propone una storia di (doppia) possessione in un chiuso villaggio dove due nuove arrivate (una studentessa ed un'insegnante) divengono veicolo di truculenta vendetta per inconfessabili crimini datati di trent'anni. Se non fosse per la confezione professionale e la buona recitazione, il film sarebbe risibile, quasi una barzelletta, ridotto com'è all'impilarsi di una serie di sequenze del tutto formattate che seguono formule di costruzione della tensione e del brivido da sussidiario del thriller, senza mai discostarsene, dando l'impressione di un loop narrativo-visivo che, volendo, ha dello sperimentale: è dubbio però che le intenzioni di Ahn fossero tali… Pare che il (pessimo) film sia già preacquistato per il mercato italiano…


 

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