Pinocchio, di Matteo Garrone

Appare un adattamento fedele del romanzo di Collodi. Ma qui le proiezioni della nostra immaginazione si possono toccare con mano. E la strada intrapresa ora dal cineasta è piena di (belle) sorprese.

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Pinocchio come Mastorna. E rispetto a Fellini, Garrone è riuscito a completare una sua ossessione che, forse, nel corso degli anni aveva già subito diverse provvisorie incarnazioni. Soprattutto in Luciano, il pescivendolo napoletano di Reality. Il burattino Pinocchio si muove come in una specie di “Grande Fratello”. Potrebbe essere osservato da telecamere nascoste: dal Gatto e la Volpe, alla Fata fino al Grillo Parlante. Ma anche Mangiafuoco. Con Pinocchio protagonista dello spettacolo per burattini. Lì, forse, prende forma il suo ‘reality’. L’unico che invece lo segue, guidato solo da cecità e amore incondizionato, è proprio Geppetto. Dove Roberto Benigni guarda nuovamente le genesi della sua creazione. Lo aveva fatto da un punto di vista cinematografico proprio con la sua modernissima e incompresa versione della fiaba di Collodi del 2002. Lo fa nuovamente ora, a 17 anni di distanza. Quello del personaggio (ma anche regista) che assiste alla nascita del burattino di legno che poi parlerà e si muoverà da solo. Il falegname lo tratta come un figlio. Lui però è disobbediente, non va a scuola e si fa portare sulla cattiva strada dal Gatto e la Volpe. Poi incontra una fata che gli promette che lo trasformerà in un bambino se si comporterà bene.

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Sembra un adattamento fedelissimo quello di Garrone alla fiaba. E in realta lo è. Ciò che attrae è soprattutto la natura dichiaratamente artigianale. In un cinema dove si sente la materia: il legno, la carta, la terra, la polvere. Quasi una specie di immensa ‘fabbrica di sogni e di incubi’ che è una delle tracce del cinema del regista. Dove la dimensione fantasy si ripropone dopo Il racconto dei racconti, ma senza il formalismo limitante di quel film. Qui ci sono continue apparizioni. Creature inquietanti e magiche. Dai due dottori che visitano il burattino, al rospo nei pantaloni del maestro. Fino al Paese dei Balocchi. Non il circo felliniano che ci si attendeva. Ma un divertimento in cui è già nascosta la componente tragica. Proprio nel momento stesso in cui si sta assistendo alla scena prima della trasformazione di Pinocchio, Lucignolo e gli altri bambini in asini. Con il cielo plumbeo che sembra arrivare da Dogman. I due film sono infatti accomunati dallo stesso direttore della fotografia, Nikolaj Brüel. Ma condividono anche un rifugio troppo permeabile. Marcello in Dogman ha un locale dove lavora per la tolettatura per cani. Geppetto in Pinocchio ha la sua bottega. Ma entrambi non potranno vivere, se non solo provvisoriamente, nei loro spazi sicuri. Gli eventi esterni li porteranno sulla strada. Di una periferia quasi noir nel caso di Marcello, dei campi sterminati, ma anche inquietanti, da dove si può sparire e dissolversi, in quello di Geppetto.

Le visioni di Pinocchio hanno qualcosa di materico. La nostra immaginazione, che per anni ha ricostruito la storia del burattino sotto varie forme nella nostra mente – anche grazie al cinema attraverso Walt Disney (1940), il bellissimo sceneggiato di Comencini del 1972 ma anche il ‘sogno lungo un giorno’ dello stesso Benigni – stavolta ci mette davanti personaggi, ambienti e luoghi in cui c’è l’illusione di poterli toccare con le nostre mani. Dalle monete del campo dei miracoli, al cibo della trattoria (con la scena iniziale che è forse l’unica in cui prevale leggermente la maschera comica e tragica di Benigni), fino alla balena. È la natura tattile del cinema di Garrone. E il momento in cui Pinocchio è sott’acqua potrebbe riciclare ancora il fondo marino di Dogman.

Il Pinocchio di Garrone potrebbe far pensare molto alle macchine scenografiche del cinema di Terry Gilliam. Dove ancora lo spettacolo ha molti spettatori anche fuori-campo come nel numero del cerchio di fuoco. Con quello sguardo tra Pinocchio diventato ciuco e la Fata, quasi apparizione angelica di Marine Vacht che però è anche figura seducente e manipolatrice. Eppure è allo stesso tempo un film con tracce ‘truffautiane’; l’educazione sentimentale e il difficile rapporto con le regole. Tra il maestro di I 400 colpi e quello di Pinocchio potremo trovarci davanti ad Antoine Doinel diventato di legno. Oppure la natura saltellante, scandita dalle musiche di Marianelli e gli spostamenti di Il Gatto e la Volpe. Con tutta l’energia ma anche la stralunata astrattezza di Ceccherini (anche sceneggiatore con Garrone) che diventa forse il personaggio più importante dopo il protagonista, interpretato da Federico Ielapi. Forse i due personaggi sono un’altra reincarnazione cinematografica, da Totò e Ninetto Davoli in Uccellacci e uccellini. Ogni nuovo luogo è un’apparizione. Come il finale. Che si conosce. Ma stavolta ha un’emotività contagiosa. Da cui forse lo stesso cinema di Garrone si è fatto per un attimo sottomettere. Ed è una delle ragioni per cui la strada intrapresa dal cineasta è ora piena di (belle) sorprese.

 

Regia: Matteo Garrone
Interpreti: Roberto Benigni, Federico Ielapi, Massimo Ceccherini, Rocco Papaleo, Marine Vacth, Gigi Proietti, Alida Baldari Calabria
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 120′
Origine: Italia/Francia, 2019

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.61 (49 voti)
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    Un commento

    • Per me Pinocchio sfiora il capolavoro. Qualche approfondimento drammaturgico, qualche interpretazione ancora più straordinaria (si poteva forse fare di più in alcuni casi, per esempio Mangiafuoco) e saremmo di fronte a un film da leggenda. Ma resta comunque un film straordinario, prima di tutto perché è diverso da qualunque cosa abbiamo mai visto. Non è un colossal, non è una commedia all’italiana, non è un thriller, non è un horror. E’ cinema della materia e tutte queste cose insieme.