"Pirati dei Caraibi – Ai confini del mondo", di Gore Verbinski

La terza avventura del capitano Jack Sparrow vanta un substrato adulto, ma nonostante una realizzazione tecnica impressionante perde gran parte della spontaneità e della sua vitalità, allontanandosi dai clichés ironici in grado di garantire mero intrattenimento di cassetta. Alla fine è l'eccessiva lunghezza che affonda un blockbuster poco consistente.

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Pirati dei Caraibi, atto terzo: con la consapevolezza, sbandierata dal finale più aperto che mai, che la saga è ben lungi dal vedere la conclusione. Film di transizione, allora, che riparte esattamente là dove terminava La maledizione del forziere fantasma, di un anno precedente. Riunitisi al resuscitato capitano Barbossa, i prodi avventurieri guidati da Elizabeth Swann e Will Turner affrontano le acque della morte, con la complicità di un feroce pirata asiatico, Sao Feng, pur di riscattare l'anima di Jack Sparrow, la cui collaborazione è fondamentale per sconfiggere la Compagnia delle Indie Orientali e il predominio marittino di Davy Jones e del suo Olandese Volante.

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Abbandonate le fonti d'ispirazione originali – il videogioco Monkey Island tanto quanto il romanzo fantasy Mari stregati, di Tim Powers – e al tempo stesso diminuita l'influenza sul contesto del «coté fantastico», forte soprattutto nel secondo episodio, Gore Verbinski, anche sceneggiatore, dà alla sua creatura un nuovo volto, più maturo e consapevole. Quasi volesse offrire una giustificazione tattica ad una sceneggiatura troppo complessa, stando almeno all'ambito produttivo di partenza. Il divertissment intrepido muta in strategia, un gigantesco gioco di ruolo che, nella contrapposizione bellica delle fazioni avverse, non può non ricordare Tolkien e il terzo capitolo della trasposizione cinematografica de Il signore degli Anelli (Il ritorno del Re, 2003, di Peter Jackson). Peccato però che nella riduzione del soggetto, il «wargame» perda cattiveria e lasci spazio a noia e metodo: tanto sono veloci ed efficaci i singoli combattimenti, in particolar modo nell'ultima concitata mezz'ora, dove spesso gli effetti speciali aiutano la macchina da presa a sbizzarrirsi con ampi carrelli, quanto è bolsa e priva di sintesi la campagna militare se esaminata nel suo complesso.


Cosa aspettarsi da un film in cui sono praticamente tutti buoni, o passibili di redenzione, e in cui, tranne un unico colpo di scena – il sacrificio di un personaggio, solo parziale, così da permettere all'attore coinvolto di proseguire il suo percorso da star nella serie -, nessuno muore veramente? L'immortalità di queste figure, che con il pericolo dovrebbero invece convivere sprezzanti, è allora il punto di non ritorno di un cinema che, indeciso sulla strada da prendere – abbandonare il pubblico adolescente e familiare per puntare ad un'audience più smaliziata? -, non conosce concretezza, né di intenti né di misure. A poco valgono i plausi per una resa tecnica di prim'ordine, a parte alcune imbarazzanti sequenze fotografate come uno spot televisivo, quando a tanta perfezione stilistica non corrispondono energia e fiducia; a tal punto da rendere impersonali gli attori, pure non malvagi, e i loro conflitti in scena, che un tempo svagavano.



Titolo originale: Pirates of the Caribbean: At World's End


Regia: Gore Verbinski


Interpreti: Johnny Depp, Orlando Bloom, Keira Knightley, Bill Nighy, Chow Yun Fat, Geoffrey Rush


Distribuzione: Buena Vista International Italia


Durata: 169'


Origine: USA, 2007

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