Plan 75, di Chie Hayakawa

Crudo nella sua delicatezza e raramente didascalico, accompagna in una distopica immersione all’interno della realtà della cultura nipponica attraverso una storia di ‘autosacrificio’. Fuori Concorso

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“Spalle al muro
Quando gli anni son fucili contro”
[…]
“Ma sei vecchio
Ti chiameranno vecchio
E tutta la tua rabbia viene su
Vecchio, sì
Con quello che hai da dire
Ma vali quattro lire, dovresti già morire
Tempo non c’è ne più
Non te ne danno più”

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Risale al 1991 la standing ovation tributata dal pubblico di Sanremo a Renato Zero per “Spalle al muro”. Oggi, a distanza di oltre trent’anni e 9700 chilometri, non esistono parole che meglio sappiano intercettare la sensibilità di Plan 75, lungometraggio di Chie Hayakawa presentato nella sezione Un Certain Regard di Cannes e Fuori Concorso a Torino.

La regista, classe 1976, accompagna in una distopica immersione all’interno della realtà della cultura nipponica. Tra le abitazioni di un Giappone futuro – ma difficilmente futuribile – dove l’emergenza civile dovuta all’invecchiamento della popolazione ha convinto il governo ad attuare il cosiddetto Plan 75 e offrire supporto economico-logistico agli anziani che – compiuti settantacinque anni – scelgono di sottoporsi volontariamente all’eutanasia. È il Giappone plasmato dalla secolare cultura del samurai, votata all'”auto-sacrificio”. La medesima terra d’Oriente selezionata da Kinji Fukasaku come teatro della cacotopia d’inizio millennio raccontata da Battle Royale, del quale il film di Hayakawa costituisce un intrigante contraltare generazionale.

Incorniciato dal grigiore di un cielo plumbeo, Plan 75 intreccia i destini dell’anziana Michi, del giovane Hiromu, venditore del programma, e dell’infermiera Maria, moltiplicando le angolazioni d’indagine e puntando i riflettori su manifestazioni differenti – ma complementari – dell’inquietante normalizzazione di una pratica disumana. Ben al di là delle implicazioni etiche legate al dibattito relativo alla pratica dell’eutanasia, il film – crudo nella sua delicatezza e raramente didascalico – esibisce invece l’evidenza di uno status di non-scelta. Di un sistema consacrato al mascheramento dell’omicidio utilitaristico in cui la morte, privilegiata via di scampo dalla crudeltà di solitudine e abbandono, possiede il timbro gentile di un esecutore ammaestrato e il viso imbellettato da saune, massaggi, saloni di bellezza e menù super lusso; corredo truccato d’una poetica ed efficiente “soluzione finale” in un mondo di risposte facili e sentimenti con data di scadenza.

“Ma vali quattro lire, dovresti già morire
Tempo non c’è ne più
Non te ne danno più”

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
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