Planet B, di Aude Léa Rapin

Il secondo lungometraggio della regista è un sci-fi movie figlio delle ossessioni socio-claustrofobiche del periodo post-pandemico. Derivativo, ma consapevole. VENEZIA 81. Settimana della Critica.

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È un altro figlio del lockdown il Planet B di Aude Léa Rapin. Figlio di quelle ossessioni ingigantite dall’esplosione dell’emergenza pandemica di inizio 2020 e subito codificate, rielaborate, restituite sottoforma di immagine e immaginario. È un cinema claustrofobico, un cinema sociofobico. Fantascienza politica che richiama ed aggiorna la distopia di Cuarón de I figli degli uomini e molto rimette in circolo anche della tecno-dittatura dell’ultimo, lucidissimo, Soderbergh – nonché di tutto il sci-fi di matrice orwelliana che ormai da decenni innerva la produzione di genere su grande e piccolo schermo. È un cinema che rimette al centro lo sguardo – con tutti i limiti e le possibilità fisico-metaforiche dello stesso. Che di fatto si allinea alla cupezza retinica messe a schermo dal connazionale Vincent deve morire, esordio di Stéphan Castang, e ci trasporta nella Francia del 2039. Qui, in un mondo ormai al collasso in cui l’attivista Julia Bombarth, perseguitata e catturata dalle forze dell’ordine insieme ad alcuni compagni, finisce reclusa in una prigione virtuale denominata Planet B e torturata dallo Stato lontano dagli occhi dell’opinione pubblica.

Rapin riparte dalle suggestioni di uno dei più celebri eco-slogan degli ultimi anni. Le ribalta, ne sviluppa una sorta di negativo; dà vita a una vera e propria simulazione horror-videoludica all’interno della quale i prigionieri sono avatar di loro stessi – costretti tra le “amene” mura di un’arena che sembra a più riprese strizzare l’occhio alle architetture immaginate da Suzanne Collins per la saga di Hunger Games. Poi gioca di contrasti, cromatici e fotografici. Passa dall’una all’altra dimensione. E su quest’asse innesta il proprio ragionamento sull’atto stesso di “vedere” – là dove una dark room è luogo preposto alla delazione e lo stupro del subconscio è la principale arma di tortura governativa. E dove, non a caso, l’unica speranza di salvezza risiede nel personaggio di Souheila Yacoub, in possesso di uno speciale e segreto visore che le permette di bypassare il sistema rimanendo invisibile – dominando cioè entrambe le dimensioni dello spettro.

Arricchito dalle musiche di Bertrand Bonello, altro punto di riferimento essenziale del cinema distopico transalpino, Planet B forse non rilancia o riscrive le regole di genere. Ma parla e pone quesiti con consapevolezza e senza mai avere la presunzione di conoscere tutte le risposte. Specchio fedele del clima di profonda incertezza esistenziale che va raccontando.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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