Playtime – Tempo di divertimento, di Jacques Tati

Rivoluzionario nell’uso del colore, girato in 70 mm, una fantascienza che al botteghino è stato un flop. Ma ha ispirato, tra gli altri, David Lynch e Wes Anderson. In sala da domani

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Prima di girare film ero un mimo: dovevo riprodurre per la gioia degli spettatori quello che osservavo nella vita. Nel cinema ho portato la stessa tecnica di osservazione del prossimo, copiando la vita, mostrando le piccole assurdità e i tratti tipici dei singoli individui.“
Jacques Tati

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Se c’è un film che esplora il concetto di spazio e di tempo in maniera astratta questo è sicuramente Playtime di Jacques Tati. Un’opera sperimentale apparentemente travestita da comica muta, girata in 70 mm e in campi lunghi con più azioni che si svolgono simultaneamente, quasi mai al centro dell’inquadratura. Senza un protagonista, senza una trama, con rari dialoghi alternati a fonemi e borbottii incomprensibili.

playtime jacques tatiUna provocazione da video artista, un quadro di Mondrian dove è facile perdersi seguendo linee e porte di un labirinto perfettamente squadrato. Uno dei più grossi flop della storia del cinema (il tracollo finanziario che ne derivò costrinse il regista francese a vendere persino la propria casa) con un budget di circa 17 milioni di franchi quasi tutti spesi nel ricreare a sud di Parigi la immaginaria cittadina di Tativille. Eppure è proprio questa ambiziosa opera di Tati a rompere tutti i canoni tradizionali e ad essere ponte tra il classico e il moderno. Evidenti i richiami a Chaplin e Keaton ma ancora prima al nume tutelare Max Linder citato apertamente nella scena della rottura della porta a vetri e la conseguente pantomima con maniglia. Non è un caso che Tati abbia ispirato Jerry Lewis e Blake Edwards (Hollywood Party è un omaggio alla seconda parte di Playtime) e in tempi più recenti Wes Anderson (il full frontal surreale), Roy Andersson (il campo lungo che esalta la profondità dell’inquadratura), Aki Kaurismäki (la comicità esaltata dalla geometria degli spazi), David Lynch (il teatro dell’assurdo di Rabbits) e Maurizio Nichetti (Ratataplan).

jacques tati playtimeE’ vero quello che dice Noel Burch: “Playtime è il primo film nella storia del cinema che non solo deve essere visto parecchie volte, ma deve essere guardato da diverse distanze dallo schermo per potere essere meglio apprezzato”. Insomma una cartina di tornasole che riflette i diversi punti di vista dello spettatore: la prima volta ti annoi, la seconda ti incuriosisci, la terza ti sorprendi, la quarta inizi ad entusiasmarti. Tati è convinto che la bellezza sia lì davanti ai nostri occhi ma noi continuiamo a guardare da un’altra parte, incastrati da ritmi frenetici e dalla convenzioni sociali. La modernità porta al suo interno il germe della solitudine e della disumanizzazione: per tutta la prima parte del film notiamo persone che non si incontrano, non si parlano, non si ascoltano, non riescono nemmeno a vedersi. La sala di un aeroporto sembra un ospedale e Parigi si nota solo in rapidi riflessi sulle vetrate, pochi secondi di Tour Eiffel, di Arco di Trionfo,di Place de la Concorde, di Cattedrale del Sacro Cuore.

playtime tatiTati prende le distanze da questo mondo automatizzato, fatto di spie luminose, scritte al neon, vetri trasparenti, pavimenti sdrucciolevoli, scale mobili, piante di plastica, ritratti che pendono dalle pareti come in un incubo. Playtime diventa un film di fantascienza antropologica in cui il personaggio di Monsieur Hulot perde tutti i riferimenti spaziali e temporali, fino a diventare elemento disarticolato e lateralizzato, figura di contorno, comparsa insignificante. Proprio nella seconda parte, quella che si svolge al ristorante Royal Garden, Hulot abbandona la propria centralità volatilizzandosi nella folla danzante al ritmo swing-jazz anni 60, fino a quando crollano i pezzi dell’architettura modernista. Rivoluzionario è anche l’uso del colore, prevalentemente algido e uniforme a richiamare l’estetica cromatica anonima di luoghi pubblici alienanti: unica eccezione è il negozio della fioraia il cui angolo retrò variopinto si erge solitario contro l’acciaio e il vetro della modernità. Il rumore di fondo copre ogni altro significato e i personaggi perdono il senso delle loro azioni, ora automatiche, ora ripetitive, quasi ipnotizzanti. Le macchine girano in tondo come in una giostra infinita, gli appartamenti sono set cinematografici in cui tutto è manifesto in maniera così palese da risultare falso. Il suono si fa immagine e ogni rumore in scena sembra provenire da questa asincronia tra il soggetto e l’ambiente che lo circonda.

Tati ridisegna i confini dell’immaginario urbano e si inventa una “persona cinematica” che vaga in maniera entropicamente svantaggiosa alimentando il caos e la confusione. Intervistato su questo vagare peripatetico di Hulot, Tati rispose che i suoi movimenti ricordavano quelli dei cani, che spesso esplorano l’ambiente con direzioni non finalizzate: davvero la freccia del tempo si è spezzata e non esistono più traiettorie definite. La risposta all’architettura ottimista modernista di Le Corbusier e Bauhaus è la creazione di una figura comica sovversiva che lascia alla macchina da presa la coscienza giudicante. Il comico diventa di per sé una critica alla modernità, una accusa all’utile come grande idolo del tempo, uno sberleffo alla maniera d’essere di un’epoca.

 

Titolo originale: Playtime
Regia: Jacques Tati
Interpreti: Jacques Tati, Barbara Dennek, Jacqueline Lecomte, Valérie Camille, France Rumilly
Distribuzione: Ripley’s Film/Viggo
Durata: 120′
Origine: Francia 1967

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4 (4 voti)
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