“Poets Don’t Pay” – Intervista esclusiva a Ferdinando Vicentini Orgnani

Il regista ha diretto The Beat Bomb, un documentario sulla Beat Generation e la figura di Lawrence Ferlinghetti in sala dal 13 aprile.

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Nasce in maniera naturale The Beat Bomb, il nuovo documentario di Ferdinando Vicentini Orgnani sulla Beat Generation e la figura di Lawrence Ferlinghetti. Una gestazione di quasi 15 anni, a partire dal 2007 quando stava ancora lavorando ad un documentario sul Sessantotto. Questa naturalezza o spontaneità, che dir si voglia, è il carattere distintivo di The Beat Bomb, un lavoro a tratti confuso ma capace di momenti di grande intensità in cui si riesce ad intravedere il vero obiettivo del regista. Il film è nelle sale cinematografiche dal 13 aprile.

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Di seguito l’intervista all’autore Ferdinando Vicentini Orgnani:

 

Come nasce questo progetto? E com’è stato il primo incontro con Lawrence Ferlinghetti?

Nel 2006 mi trovavo a San Francisco per alcune riprese del documentario Sessantotto – L’utopia della realtà, qui ho iniziato ad entrare in contatto con vari esponenti del vecchio universo Beat, come Jack Hirschmann, ma anche Judith Malina del Living Theatre e uno dei capi storici del Black Panther Party, David Hilliard. Tanti stimoli e un mondo che non conoscevo mi hanno ispirato fin da subito. Poi attraverso Jack sono riuscito ad incontrare Ferlinghetti, tra l’altro nel film c’è l’esatta telefonata tra loro due in cui organizzano l’incontro. Da lì e negli anni seguenti ho continuato a frequentarlo e a girare materiale che sapevo prima o poi avrei usato. Ma non è facile riuscire a mettere un punto e a racimolare il lavoro di tutti questi anni in un solo documentario. In questo sono stato molto aiutato, o meglio “pungolato”, dai produttori del film, con cui ho avevo già lavorato negli anni passati.

 

Qual era il tuo rapporto con il movimento artistico della Beat prima del film e come è cambiato da quando l’hai concluso?

Conoscevo mediamente le opere del movimento in quanto studente universitario, non ero certo un esperto. Da giovane sono stato anche negli Stati Uniti da ragazzo, in Kentucky. Ma è stato sicuramente l’incontro con Jack e Lawrence a cambiare tutto e a far crescere in me quell’interesse. Ricordo quegli anni in cui li andavo a trovare a San Francisco. Io avevo dei fondi perché stavo girando un film e potevo mettere in conto alla produzione (ride), loro non avevano un soldo, mi toccava offrire tutte le cene. “Poets don’t pay” mi ripetevano. Vivere così ai margini di una società capitalista come quella americana non è facile, soprattutto quando si vive di poesia. Diciamo che è soprattutto questo che è cambiato per quanto mi riguarda, oltre ad apprezzare l’arte e la poesia sono riuscito a comprendere la loro visione della vita. Anarchica come Ferlinghetti.

 

Come hai costruito il film in fase di post produzione? Tra montaggio, utilizzo di immagini di repertorio e colonna sonora…

Il montatore Alessandro Minestrini mi ha aiutato molto a gestire la grande mole di materiale che avevo accumulato. Diciamo che sì, ho utilizzato del repertorio ma se ci penso lo è tutto quanto, anche il mio girato lo è. Si tratta di riprese di dieci o quindici anni fa. Il montaggio è andato avanti per simpatia e accordi di tempi, molto più a livello di sensazioni che di ragionamenti veri e propri. L’unica cosa certa era il finale con quella bellissima poesia di Ferlinghetti (Storia dell’aereoplano) recitata da Michele Placido e Giorgio Albertazzi durante uno spettacolo a Roma in suo omaggio. Mi è subito sembrato il modo migliore per concludere. Con Paolo Fresu, l’autore delle musiche, lavoro ormai da vent’anni e sono molto contento del risultato, è riuscito a seguire in maniera intelligente l’andamento disordinato del film e ad accentuare i momenti più caotici in maniera magistrale.

L’aspetto che più mi ha colpito del tuo film è questa apparente “casualità”, un flusso di coscienza disordinato in cui si trova armonia. Si tratta anche di un film molto umano in cui si nota la voglia di raccontare le anime di queste persone senza mettere in scena nulla, semplicemente girando materiale per cercare di catturare qualche attimo irripetibile. Da questo punto di vista ho pensato al cinema di Cassateves, soprattutto nella scena della cena attorno al tavolo circondato da personaggi/persone che mangiano e bevono allegramente.

Posizionare gente intorno a un tavolo girare e girare non si sa dove si va a finire e poi si sceglie, si fa una selezione. Non si possono mettere in scena certe cose. Mi piace Cassavetes anche se chiaramente è un cinema molto diverso, ma l’approccio da questo punto di vista è simile. L’inizio del film è totalmente casuale. Ero stato invitato in Trentino su una malga ad alta quota ad un “memorandum” di Ferlinghetti. Faceva freddissimo, c’erano molti animali e tanta gente particolare, un qualcosa che non si può mettere in scena. Qui Fresu è stato fantastico con la sua colonna sonora a sottolineare il momento. Un altro momento improvvisato è quello con l’attore Tony Lo Bianco, mio grande amico da molto tempo. Gli avevo chiesto di leggere delle poesie di Ferlinghetti ma lui, amico di Donald Trump e quindi tutt’altro che affine alla posizione politica di Ferlinghetti ha voluto distaccarsi dalla persona prima di leggere le poesie dell’artista.

 

Quale eredità ci lascia Lawrence Ferlinghetti?

Questo è un film che potrebbe essere proposto nelle scuole, non tanto per l’approfondimento artistico sulla Beat Generation, quanto per il discorso che Lawrence mette in piedi in più di qualche sequenza. Lui si definiva un anarchico, ma in maniera completamente opposta all’accezione negativa che ne è stata data negli anni. Nel film ricorda un discorso del ’61 di Eisenhower in cui il presidente degli Stati Uniti si mostrava amareggiato per non essere riuscito a contrastare la lobby della guerra e delle armi del paese. Ferlinghetti riassumeva tutto questo nell’espressione “american military industrial-complex”, ovvero quel sistema di pratiche in cui si giustifica una guerra ingiustificabile solo per vendere armi e far girare quell’economia. Perché tanti personaggi della storia sono ricordati come criminali e terroristi e alcuni come Blair, Bush e molti altri no? Questo è il messaggio politico assolutamente attuale che resta di Lawrence, la visione del mondo di un uomo che nel ’44 partecipava al D-Day e nel ’45 giungeva a Nagasaki distrutta dalla Bomba Atomica.

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