POLEMICHE – Lav Diaz sì, Lav Diaz no: cronaca di un triste post- #Venezia73

Un dibattito deprimente. Che coinvolge soprattutto quella stampa che ha inveito contro il Leone d’oro . Ma in parte anche a quella frangia di fan talibani del regista filippino. Cosa è successo?

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C’è sempre qualcosa di molto triste da parte della stampa italiana alla fine di un festival. Oggi più di ieri. Come se il verdetto delle giurie dovesse tener conto di quei fattori che servono per richiamare il pubblico di cui molti giornalisti sembrano conoscere la formula magica.

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Prima di ripercorrere un po’ tutte le polemiche che si sono scatenate al termine del Leone d’oro assegnato a Lav Diaz per The Woman Who Left facciamo qualche confuso passo indietro. Nel 2000, poco prima dell’inizio del Festival di Cannes, Enzo Siciliano si lamentava dell’assenza di film italiani in concorso a Cannes. E, in sintesi, lo motivava affermando che era ingiusto che il paese dei De Sica, dei Rossellini, dei Fellini e dei Visconti non portava nessun film in competizione sulla Croisette. Tutto molto giusto. Solo che nel 2000 tutti e quattro questi registi non solo non erano più in attività ma anche deceduti.

isabelle-huppert-bella-addormentata-bellocchoSalto in avanti. 2012. Festival di Venezia, il primo dell’era Barbera. La giuria è presieduta da Michael Mann e tra i suoi componenti c’è anche Matteo Garrone. Vince Pietà di Kim Ki-duk. La stampa italiana tuona: “Non sono stati premiati i film italiani!”. Quell’anno in gara ce ne sono tre: Un giorno speciale di Francesca Comencini, È stato il figlio di Daniele Ciprì e Bella addormentata di Marco Bellocchio. Le polemiche riguardano soprattutto il mancato premio a quest’ultimo. Che forse lo meritava, come nove anni prima per Buongiorno, notte. Queste però sono le giurie. E, in un festival competitivo, ogni decisione va accettata. Avviene più o meno dappertutto. Non qui. Dove ci si scandalizza ancora. Con rabbia e veemenza. Quell’anno Michael Mann si era mostrato infastidito per questa reazione. Non aveva capito di che pasta siamo fatti.

2015. Ancora Cannes. Tre italiani in concorso. Mia madre di Nanni Moretti, Il racconto dei racconti di Matteo Garrone e Youth di Paolo Sorrentino. Grande festa dopo l’annuncio della competizione. “La rinascita del GRANDE cinema italiano”. Palmarès. Nessuno di questi titoli si porta a casa un premio. Ingiustizia. Vergogna. Vince Dheepan di Jacques Audiard. Molti titoli bellissimi, come Al di là delle montagne di Jia Zhang-ke, restano a bocca asciutta. Ma di questo alla nostra stampa non interessa. I tre moschettieri del cinema italiano di quell’anno meritavano i massimi riconoscimenti.

the-woman-who-leftL’abbiamo presa un po’ alla larga per arrivare a Venezia 2016. Dove ha vinto, con grande stupore, The Woman Who Left di Lav Diaz. Ecco un titolo da Repubblica: “Vince un film filippino di 226 minuti in bianco e nero”. Come se fosse stato il primo premio vinto da Lav Diaz. Dimenticandoci quello, sempre a Venezia, per Melancholia che si era aggiudicato nel 2008 la sezione Orizzonti, il Pardo d’oro a Locarno con From What Is Before (2014) e quest’anno il Premio Alfred Bauer alla Berlinale con A Lullaby to the Sorrowful Mystery.

sam-mendes-daniel-craigIl giorno della proiezione stampa del film di Diaz già alcuni giornalisti annunciavano la loro defezione: “Finalmente stasera, con un film di 226 minuti, si va a mangiare”. Poi, dopo il Premio, esplodono risentimento e rabbia: “Perché non ha vinto La La Land?”. E una parte della stampa annunciava fieramente che quel film non l’aveva visto e quindi non andava premiato. Ognuno chiaramente è libero di vedere quello che vuole. Ma poi non può prendersela con gli altri, in questo caso con la giuria. Come con il suo Presidente Sam Mendes che ha deciso di “premiare un film filippino per lavarsi la coscienza perché lui gira blockbuster”. Come se oltre a 007 non avesse diretto anche piccoli gioielli come American Life. Sublime esempio di dietrologia, paese dove siamo maestri. E molti giornalisti nostrani, con i loro post invettivi, confermano il nostro primato. Oppure giornaliste di noti quotidiani che affermano che in Sala Darsena, dopo il film, erano rimaste in 11 persone mentre in realtà non era uscito quasi nessuno come si evidenzia da questo tweet di Mauro Gervasini, direttore di Film Tv e selezionatore della Mostra del Cinema di Venezia: “Buongiorno , alla proiezione stampa di LavDiaz l’8/9 h19.45 sala Darsena piena fino alla fine. In quale sarebbero rimasti in 11?”.

leonardo-pieraccioniPer rinvigorire la posizione di un premio proprio sbagliato che si fa. Ovvio si contattano Enrico Vanzina (“Premi come quello di quest’anno non aiutano, anzi….”, da La Stampa) e Leonardo Pieraccioni (“Tra qualche mese il film filippino di quattro ore ce lo ricorderemo meno della smutandata che ha fatto il red carpet per quattro minuti” da Dagospia). Ma è facile attaccare loro mentre non c’entrano niente. Hanno espresso solo una loro opinione che non si condivide. Ma sia Vanzina sia Pieraccioni sono stati vittime di questo ingranaggio di una stampa da critici fan, ancora più aggressivi dall’avvento dei social. Perché per completezza di informazione non si è contattato – come ha fatto notare Giona A. Nazzaro, Delegato Generale della SIC – anche Gianfranco Rosi? Non proprio uno sconosciuto. Leone d’oro a Venezia nel 2013 per Sacro GRA e quest’anno alla Berlinale per Fuocoammare. Che era Presidente di giuria a Locarno quando Lav Diaz ha vinto il Leone d’oro.

Se poi si vuole essere puntigliosi, The Woman Who Left dura meno del dittico di Novecento e di Kill Bill, di Via col vento e di C’era una volta in America. E allora, di che stiamo a parlare?

piuma-roan-johnsonC’è poi però l’altra ala, quella pro-Lav Diaz, altrettanto oltranzista. Che pensa che quello del regista filippino sia l’unico cinema possibile (che per inteso, anche qui a Sentieri Selvaggi si ama molto ma il nostro film del concorso era Une vie di Stephane Brizé), che fischia Piuma perché le commedie italiane no, in concorso non ci devono andare (e meno male che Lo chiamavano Jeeg Robot e Scialla! si sono evitati la competizione veneziane dove la stampa, in un senso o nell’altro, è sempre poco obiettiva con i titoli italiani). Che vivono il film di Diaz come un’esperienza assoluta. Alcuni di loro, quelli veramente appassionati, ti trasmettono autenticamente il loro amore e la loro conoscenza. Ce ne fosse a migliaia di gente così.  Altri invece ti accusano subito, facendoti anche gli occhi un po’ brutti: “Come mai ti sei appisolato 5 minuti durante un’inquadratura di Melancholia?” oppure “Non ne potevi fare a meno di andare in bagno in un momento decisivo di A Lullaby to the Sorrowful Mystery?”. Sono come i vegani che appena tocchi una fetta di salame ti fanno sentire come l’assassino di tutti gli animali del mondo.

lo-zio-boonmee-che-si-ricorda-le-vite-precedentiPoi si è insediata una nuova categoria, la peggiore di tutti. i fans di Lav Diaz dell’ultim’ora. Che non hanno visto niente prima ma ne parlano come se conoscessero a fondo tutta l’opera del cineasta filippino. E che dicono e/o scrivono ovvietà sconcertanti (“un’esperienza fluviale”, “c’è il cinema e la vita”, “che gioia perdersi in quei piani fissi”) che attaccano Vanzina, Pieraccioni e, perchè no, pure quel fascistone di Mel Gibson con la sua ‘americanata guerrafondaia’ Hacksaw Ridge. E perché no, a questo punto ci sta bene anche qualche selfie. Tanto per mantenere un atteggiamento di rigorosa professionalità. Daje!

Il dibattito è tristissimo, deprimente. Quasi al limite dello squallore. Si è persa la curiosità e l’amore per questo lavoro. Non è che i Premi devono essere dati ai film con prospettive commerciali. Allora cosa si dovrebbe dire, per esempio, di Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti di Apichatpong Weerasethakul, Palma d’oro a Cannes nel 2010 o, nello stesso anno, Bal del turco Semih Kaplanoğlu, Orso d’oro alla Berlinale?

citta-dolente-hou-hsiao-hsienA Venezia ne 1989 vinse Città dolente di Hou Hsiao-hsien. È uscito in sala 5 anni più tardi, nel 1994. Ce ne ricordiamo oggi, 27 anni dopo, come un premio scandaloso o un film bellissimo?

Il dibattito è tristissimo, deprimente. Ancora. Perché il cinema è una cosa seria. Nota giustamente Fabrizio Tassi di Cineforum: “Il fatto è che nessuno è obbligato a fare il critico o ad occuparsi di cinema per professione. Se lasci un film di Lav Diaz dopo un’ora perché ti ha rotto gli zebedei o ti rifiuti di guardare Austerlitz perché ha 30 inquadrature in tutto, se inveisci urlando contro Piuma perché è un film scemo o esci dalla sala dopo mezzo Gibson perché è un patriota fondamentalista guerrafondaio, vuol dire che forse al cinema preferisci fare lo spettatore, che è un’altra cosa, altrettanto nobile della critica e del giornalismo”. E altrettanto giustamente Giulio Sangiorgio di Film Tv: “Se fai il critico dovresti usare i tuoi strumenti culturali, i tuoi saperi, per dare voce a un film, per cercare di comprenderlo. Il tuo lavoro è fare due passi indietro da te stesso, dare agio a quel che vedi, dargli una possibilità. Rispettarlo”. Ecco forse qui è il punto da cui ripartire. In ogni senso.

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