POLEMICHE (Nouvelle vague) – La Nouvelle Vague: due o tre cose che so di lei.

Prosegue il dibattito sulla Nouvelle Vague "esploso" sulla nostra rivista a partire dal Convegno di Firenze a "France Cinema". Riceviamo dai curatori la presentazione del Festival presente sul sito della rassegna, e volentieri la pubblichiamo mettendola a disposizione dei nostri lettori per un miglior approfondimento.

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di Antonio Fabbri

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La prima cosa che viene in mente pensando al movimento cinematografico della Nouvelle Vague è la libertà. Una libertà variamente declinata che si diffonde su ogni versante della comunicazione cinematografica, dalla sintassi alle tematiche, dalla costruzione narrativa agli aspetti produttivi. Fu un periodo felice, euforico per il cinema francese e divenne il nucleo radiante di un anticonformismo che, nel passare degli anni, contaminò le altre cinematografie, europee e non, mentre il nocciolo originario andava progressivamente spegnendosi. Perché, se in Francia la Nouvelle Vague sbocciò, con prodromi più o meno attribuibili al movimento, nel 1959, con il successo contemporaneo dei Quattrocento colpi e dei primi due film di Chabrol, e deve considerarsi tutto sommato conclusa al massimo verso il 1965, la sua influenza emigrò a partire dagli Anni Sessanta, contagiando, a varie ondate, Italia, Polonia, Cecoslovacchia, Stati Uniti, Brasile…, essa si trovò in perfetta sintonia con un'istanza di generale e generazionale rinnovamento che, anche in questi paesi, andò facendosi largo nello stesso periodo e, in alcuni casi (il Free Cinema ad esempio), fu addirittura precedente alla fioritura francese. Perché i mezzi tecnici del cinema erano cambiati e si erano alleggeriti (poca luce e piccola troupe di amici bastavano per girare), perché il regista non aveva bisogno di attenersi ad un testo drammaturgicamente strutturato secondo dati canoni per fare un film e perché i produttori, visti alcuni promettenti primi risultati, erano pronti a scommettere su altri giovani, i quali, a loro volta, osavano trovare i mezzi per finanziare autonomamente i propri lavori. L'importanza della Nouvelle Vague francese fu certo alimentata e potenziata dall'autorevole viatico dei "Cahiers du Cinéma"; il prestigio internazionale della rivista fece assumere ai suoi ex-collaboratori (Truffaut, Chabrol, Godard, Rivette, Rohmer, per citare i più noti) un ruolo preminente all'interno di un movimento ben più ampio e troppo spesso offuscò gli altri registi coevi o le cinematografie parallele.

I ragazzi della Nouvelle Vague non erano approdati casualmente al cinema. Dietro all'emergere del movimento vi era, innanzitutto, la complicità carbonara di chi in silenzio confessava l'indicibile passione per una forma di espressione fino a quel momento considerata mero e stolto divertimento. Il cinema non era arte, non era niente. Eppure l'amore di questi giovani doveva avere una ragion d'essere, una dignità nascosta. La "politique des auteurs" (definita sulla pagine dei "Cahiers" nel periodo in cui questi autori erano ancora critici) si sviluppò per dare rilievo e rispettabilità al cinema, elevarlo a forma d'espressione artistica andando a ricercarne le argomentazioni proprio in quell'industria americana dello spettacolo che più pareva lontana dall'alimentare e permettere la sopravvivenza di una qualsivoglia ambizione d'arte. Per i "giovani turchi" esistevano degli "scrittori di cinema", autori che usavano consapevolmente il mezzo cinematografico per comunicare con lo spettatore attraverso una precisa sintassi cinematografica, la soggettiva e peculiare scelta di tutti gli elementi che andavano a comporsi sullo schermo in successioni ordinate di inquadrature le quali, nel loro insieme, delineavano una realtà artefatta, condizionata e significante. Venne a definirsi proprio con gli autori della futura Nouvelle Vague una certa moderna teoria del cinema, un metodo di analisi dei film, soprattutto una maieutica dello spettatore che lo rendesse attento alla propria funzione fruitrice. E se un singolo film poteva così essere analizzato, l'insieme della carriera di regista riusciva allora, forse, a dire qualcosa di più su quella persona, le scelte estetiche e drammaturgiche diventavano un indice dei suoi pensieri: doveva esistere una coerenza interna nella successione delle pellicole, simile a quella che coordinava la scansione delle inquadrature in un film, dei fulcri d'interesse, una logica coesione, dei temi portanti. Hitchcock più degli altri rappresentava ai loro occhi un perfetto esempio di "autore", con temi talmente ricorrenti da diventare ossessivi, legati a pulsioni profonde e al limite della psicanalisi, espressi con uno stile visivamente splendido e immediatamente riconoscibile cui sottendeva, a dispetto della materia trattata, un'evidente razionalità concettuale, una stilizzazione che permetteva di imbrigliare il materiale realistico (attori, scenografie, tematiche…), lo sottometteva a personali codici espressivi e lo plasmava ai desideri del regista. Ogni film di Hitchcock, infatti, era ed è una limpida lezione di cinema.

I critici della Nouvelle Vague adoravano il cinema, appassionatamente, passando giornate intere alla Cinémathèque a vedere film di tutto il mondo e di ogni epoca, disquisendone infine nel tempo rimasto libero. Questo rappresentò il loro apprendistato, la loro università, la cui conclusione non poteva che essere il passaggio alla realizzazione, la stesura di una tesi in forma di film. Forti del loro studio dei film precedenti, i registi di quel periodo fecero un cinema che fu coerentemente e coscientemente "post-moderno" (un concetto poi sviluppato da Godard per tutta la carriera), in cui le citazioni non erano semplici plagi di altrui precedenti film ma diventavano l'esplicito rimando a determinate modalità espressive, un omaggio ad un regista in un calcolato gioco di assonanze di cui si rendeva edotto (e connivente) lo spettatore. Il riferimento al passato era parte integrante del nuovo cinema, il passaggio obbligato della sua emancipazione. Bisognava trovare, missando quelli degli altri, uno stile personale, un modo originale di fare cinema e di accordarlo ai propri desideri, alle personali aspirazioni e sensibilità.


L'impeto rivoluzionario portò inizialmente la Nouvelle Vague ad eccessi di intransigenza, a giudicare sommariamente alcuni colleghi: era la libertà di scegliersi dei padri putativi all'interno della generazione precedente prediligendo quelli che potevano prestarsi come modelli comportamentali di riferimento, in cui cioè fosse rintracciabile almeno la scintilla di quella autonomia che caratterizzava la loro stessa attività. Tra tutti i registi che li avevano preceduti, i neofiti parigini volevano fare una cernita, eleggere quelli all'interno della cui opera fosse possibile sintetizzare un percorso unitario, una coerenza d'intenti che permettesse infine di rendere rintracciabile una filologia delle intenzioni e, forse soprattutto, una certa modalità nel realizzarle: la necessità dell'indipendenza. Ci furono favoritismi, lapidari giudizi, condanne faziose, un gran dispendio di passionalità (assieme ad una serie di ritrattazioni a posteriori). E ancora la libertà, appunto, di poter scegliere, di non voler accettare il cinema come semplice mestiere.


Eppure la gerarchia dell'industria cinematografica francese di allora ancora pretendeva che, per diventare registi, si dovesse passare per le forzate tappe dell'apprendistato, acquisire la necessaria esperienza tramite il passaggio graduale da secondo a primo assistente per poi, dopo anni di gavetta, meritarsi la patente di cineasta. Ma com'era possibile pensare che una passione si potesse considerare un mestiere, che si potesse insegnare a fare cinema, che ci fosse un modo giusto e uno sbagliato di farlo, e che fosse necessario un attestato per dichiararsi mestieranti provetti, registi diplomati e non potersi considerare, autonomamente, autori? Non era possibile. Pertanto era necessario bruciare le tappe, fare a meno del sistema, inventarsi modalità di produzione nuove (l'autoproduzione in forma organizzata nasce in quegli anni, e pressoché ogni regista della Nouvelle Vague fonderà la propria casa di produzione per garantirsi un margine di autonomia), svegliare l'industria, esigere e guadagnarsi l'indipendenza. I giovani registi non avevano l'avallo dell'autorità cinematografica del tempo, ma poco importava questo riconoscimento di ufficialità se, in compenso, agendo a modo loro, potevano invece perfettamente riconoscersi nei propri film. Clandestini a bordo, in pochi anni quegli esordienti degli Anni Cinquanta e Sessanta dirottarono la cinematografia francese e diffusero l'idea che fosse concepibile giungere prima del tempo allora considerato debito nella cabina di regia e che, dopotutto, questo sarebbe stato un vantaggio e avrebbe contribuito allo svecchiamento del cinema francese.

L'euforia dell'approdo alla realizzazione, la possibilità di poter finalmente operare direttamente su quella "materia di cui sono fatti i sogni" dava a quei registi in erba la libertà di arrogarsi il diritto di stravolgere le regole, fare di testa propria, usare il jump-cut, il ralenti, il fermo immagine, ogni possibilità espressiva del mezzo cinematografico. I codici, una volta individuati e definiti, potevano essere stravolti, spinti avanti, oltre la classicità, al di là della consuetudine alla ricerca di sfumature inedite, di espressività nuove. La narrazione non doveva più sentirsi obbligata a procedere organicamente, architettonicamente ma poteva permettersi anche la paratassi della giustapposizione affinché il senso scaturisse a posteriori dal film nel suo insieme. Si poteva, insomma, fare la rivoluzione, liberarsi dell'ingombro del passato e guardare avanti con maggiore e migliore libertà.


Si parlava a quel tempo di "caméra-stylo", dell'utilizzo della cinepresa come penna per prendere appunti, per stilare un diario. E' vero che molti dei film Nouvelle Vague hanno valore (anche) come ritratto del loro tempo, che alcuni sono forse talmente disarticolati da somigliare ad una matassa di annotazioni piuttosto che ad un ordito narrativo coerentemente tessuto. Ma il termine di Astruc deve forse intendersi in senso più lato. Non si tratta del solo semplice uso della prima persona singolare, del parlare di sé in una sorta di impeto narcisistico che trovi espressione in un esasperato autobiografismo ma, per il regista, di aderire completamente al film, di fare dell'opera lo specchio sfaccettato della propria personalità, il riflesso stilistico oltre che contenutistico di sé. Non è quindi strettamente necessario che l'autore della sceneggiatura sia il regista stesso ma che il film non si ponga in palese disaccordo con inclinazioni, interessi o passioni personali, che esprima anche le evidenti antipatie del regista. Questi deve potersi riconoscere in un'opera, così come un lettore si riconosce in un libro o si identifica con un personaggio, e a sua volta lo spettatore (o il critico) può rintracciare nell'opera la mano, lo stile, le tematiche di chi firma il film. Poiché però assai spesso nelle pellicole della Nouvelle Vague il regista diventa anche lo redattore della sceneggiatura, in una fuorviante sommatoria di ruoli distinti, si è forse venuto a generare uno strapotere dell'Autore che, in breve tempo, ha avuto come conseguenza il soffocamento del cinema medio, ha tarpato le ali ai professionisti del cinema, a quei cineasti poco inclini all'espressione personale e più interessati alla mera resa tecnica delle riprese. Eppure non vi è una radicale antitesi tra il mestierante e l'autore, come in fondo già dimostrava la "politique des auteurs".


 

La Nouvelle Vague portò alla "personalizzazione" del cinema perché il film era una cosa privata, l'espressione personale del regista. Per quei giovani agli esordi il cinema si doveva fare e discutere con amici "fraterni", era l'elemento centrale di una "famiglia" in cui si aveva la libertà di scegliersi i padri e preferire quelli "adottivi": il cinema più classico e stantio era definito spregiativamente "cinéma de papa", ortodosso ad una classicità impersonale e soffocante nei tempi o nelle modalità di realizzazione, era inattuale, vecchio, passato. Bisognava, in sintesi, abiurare la propria famiglia d'origine. Non è quindi forse un caso che il film che più di ogni altro si identifica con quel movimento sia i Quattrocento colpi di Truffaut, a sua volta considerato dal largo pubblico il regista più emblematico del periodo: è la storia di un ragazzo che rifiuta la propria famiglia e anela alla libertà, evade dalle costrizioni istituzionali (il "riformatorio") per essere un po' meno infelice, un po' più in accordo con se stesso, a costo di fare tabula rasa di tutto e di ritrovarsi senza niente e nessuno. Anche l'altro film paradigmatico della Nouvelle Vague, quell'A bout de souffle di Godard che imprime al movimento una forza formalmente prorompente, parla, in fin dei conti, della stessa cosa: è il racconto di una fuga e il tentativo di raggiungere la libertà, in questo caso non solo dalla famiglia ma anche, più in generale, dalla società, anche da quella cinematografica: entrambi questi esordi sono il racconto di una velleità di emancipazione. Godard, inoltre, introduce in questo contesto una già palese volontà antiborghese che, nel suo film, si articola a vari livelli: nella trama (l'amour fou e impossibile di un banditello provinciale per un'americana in trasferta parigina), nello stile, nel montaggio soprattutto. In un contesto preciso quale il cinema di genere (il noir), il regista inserisce evidenti contaminazioni dall'archetipo americano, riduce i personaggi e le situazioni a cliché bidimensionali (mentre Truffaut era stato molto attento al dettaglio realistico delle psicologie) e gestisce la narrazione con modalità del tutto anticonformiste, sorprendenti, che acuiscono l'ironia beffarda dell'operazione. Fu un colpo di stato geniale nei confronti del racconto cinematografico classico giunse ad un perfetto mimetismo tra forma e contenuto. Anche il complesso dell'opera di Chabrol (sino agli ultimi film di oggi) esprime una vivace e viscerale critica sociale antiborghese, evidenziando nella famiglia il nucleo fondante della costituzione sociale della borghesia. Ma lo sguardo sardonico di Chabrol, figlio di un benestante farmacista, non contempla mai dall'esterno la sua classe d'appartenenza, non ne addita le miserie con saccente distanza ma ne denuda i codici e gli artifici per dimostrare come da quella comoda prigione (mentale e comportamentale) sia, alla fine, impossibile scappare.


Si è imputato alla Nouvelle Vague di essere nata rivoluzionaria e morta borghese. Ma l'andamento parabolico è tipico di tutti i movimenti "anticonformisti". C'è sempre, inevitabile, il "ritorno all'ordine", la trasformazione dell'irrequieto ribelle in figliol prodigo, per ragioni variamente opportunistiche o semplicemente anagrafiche. E del resto, quando le libertà impresse al sistema diventarono cosa comune, la Nouvelle Vague stessa divenne la norma e i "Cahiers" la sua codifica. Ma rimane di quel periodo, oltre alle singole pellicole, all'ampliamento del vocabolario filmico (e critico), alla sintonia con le altre cinematografie (o all'influsso, più o meno diretto, su di esse) l'insegnamento che un cinema diverso è sempre possibile, che la libertà va trovata ed espressa ovunque, e che ricercarla non è poi così inverosimile.

 


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