Polish Film Festival a Gdynia 2018. Guerra, politica e religione in concorso

Alcuni titoli selezionati nella Main Competition nella 43 edizione del Polish Film Festival che si tiene a Gdynia, rassegna che presenta il meglio della produzione cinematografica annuale polacca

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I film selezionati per la Main Competitione del Polish Film Festival che si tiene a Gdynia sono la parte più importante di tutta la produzione annuale del cinema polacco e contiene nomi noti e meno noti al pubblico nazionale ed internazionale. Dato quindi per assodato un criterio qualitativo come filo conduttore per il concorso, le tematiche affrontate sono apparentente distanti, ma conservano delle assonanze narrative per la loro valenza politica più o meno esplicita, per l’aspetto religioso che ne traccia il contorno o diventa il palcoscenico principale in cui muovere gli attori ed il taglio autoriale che è un marchio di fabbrica della cinematografia nazionale e last but non least per l’interesse storico che sconfina nella ricerca di altre verità sotto un’inedita voce di testimonianza.

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Tutte caratteristiche facimente rintracciabili nel film d’inaugurazione della manifestazione, The Butler (Kamerdyner) di Filip Bajon, che intreccia le vicende di una famiglia dell’aristocrazia prussiana con i destini della comunità kashuba nel territorio di Danzica, in un periodo che va dall’inizio del XX secolo al secondo dopoguerra. Nel rappresentare il fermento, conseguenza dell’arrivo dei tamburi di guerra che provocano la disgregazione di comunità abituate ad una convivenza pacifica, il regista sceglie toni epici quasi a voler catturare dentro i margini di un’inquadratura l’indomito spirito di indipendenza dei protagonisti, lanciati al galoppo in una pericolosa storia d’amore, rompe gli equilibri familiari, rinnega i trattati, strappa le coscienze, dentro un incremento di violenza destinato a franare le certezze di un mondo condannato a diventare qualcosa dai connotati meno rassicuranti nei quali fa fatica a riconoscersi.

Nell’anno delle feste per il centenario dell’indipendenza polacca il film di Bajon assume evidentemente un’importanza primaria in una rassegna che si svolge negli stessi territori traslati sullo schermo e che ha una lunga tradizione d’insofferenza ai tentativi di dominio.

Quanto la guerra lasci delle tracce indelebili nella memoria per i lutti e le macerie fisiche e morali e quanto il ricordo sia vivo in territorio polacco è evidente dalla riflessione che si apre su di essa nella società, sentita come necessaria impellenza, anche in altri titoli del concorso principale, Pardon (Ułaskawienie) di Jan Jakub Kolski e Werewolf di Adrian Panek, nonché nel film più celebre della manifestazione Cold War di Pawel Pawlinowski, come se ogni frammento potesse contribuire dalla sua speciale angolazione ad alimentare un discorso che è ancora lontana dall’essere esaustiente, rappresentando una sempre prolifica fonte d’ispirazione. Pardon prende spunto da una voce narrante, il nipote di due sopravvissuti alla Seconda Guerra Mondiale, marito e moglie costretti a vagare insieme alla salma di loro figlio verso un posto adatto ad una dignitosa sepoltura, un cammino intrapreso nell’immediato dopoguerra quando le campagne ed i boschi pullulano di disperati rimasti senza patria, disertori, ex prigionieri, che costituiscono tutti una potenziale minaccia nel clima esasperato della resa dei conti.

Werewolf (Wilkołak) dalle prime inquadrature lascia trapelare un’atmosfera di horror storico, tranne poi tradire le promesse e diventare quasi un thriller. Durante l’estate del 1945 otto ragazzi liberati dal campo di concentramento di Gross Rosen stabiliscono la loro residenza in un palazzo abbandonato circondato dalla foresta, dove restano assediati da alcuni feroci pastori alsaziani in forze alle SS, anche loro sganciati durante la smobilitazione generale dalle crudeli mansioni cui erano affidati all’interno del lager, cioè sbranare i malcapitati nemici. Nel film di Panek lo sguardo è quello allucinato e distorto dei ragazzi nati e cresciuti dall’orrore, in mezzo al fetore dei cadaveri, a stretto contatto con il disumano da cui è difficile tenersi alla larga nella lotta per la sopravvivenza e la tentazione di imitare i carnefici è molto forte. Impossibile non pensare a Cujo di Sthepen King, reso memorabile sul grande schermo da Lewis Teague, anche se il paragone diventa irrispettoso a causa della mancanza in Werewolf di un’effettiva direzione e delle ambiguità nei personaggi, scritte probabilmente a favore di suspense ma che diventano alla lunga inspiegabili.

Werewolf

Autsajder di Adam Sikora invece è ambientato negli anni della legge marziale dichiarata dal generale Wojciech Jaruzelski, a tutti gli effetti una guerra civile, ed ha come protagonista Franek, un giovane studente di pittura imprigionato per un reato politico, il possesso e la diffusione di materiale vietato dal regime, ed è ispirato  ad una storia vera. Sikora cerca di trasmettere attraverso la macchina da presa il processo di maturazione di un ragazzo strappato alla propria quotidianità per essere sbattuto in cella, costretto ad affrontare degli interrogatori dove la tortura era pratica diffusa per estorcere confessioni, e con il suo film riapre un fascicolo di storia più recente che ha prodotto molte cicatrici, alcune ancora infette. Uno studente, dodicenne, che ha però le sembianze di un adulto, come tutti i suoi compagni, è anche il protagonista di 7 Emotions (7 uczuć) di Marek Koterski un film grottesco e demenziale che sceglie la via del sorriso per sollevare grandi tematiche esistenziali. Adas Miauczynski è un uomo che, in una fase di smarrimento della sua vita, come tanti cerca rifugio nell’infanzia, per trovare le risposte codificate in un linguaggio basic, come può essere quello che fa riferimento a sette semplicissime emozioni, una ad esempio può essere la rabbia, un’altra la gioia, accomunate dall’essere facilmente collegate a fatti o persone incontrate ed eventi successi nel quotidiano.

Un altro titolo che aprirà probabilmente una breccia importante nell’opinione pubblica, in un ambiente solitamente oscurato agli sguardi indiscreti e sordo ai rumori esterni, è Clergy (Kler) di Wojtek Smarzowski, altro regista che come Bajon proviene dalla Scuola di Lodz, un film che racconta di un clero ormai secolarizzato ed a rischio di finire travolto da scandali diventati, pure all’interno di un paese estremamente cattolico come la Polonia, difficili da controllare. Un segnale incoraggiante utile a scongiurare la presenza di condizionamenti politici o religiosi, perlomeno a limitarne gli effetti, sulla produzione, in linea con un passato che nell’autonomia puntava una parte importante della propria credibilità, una libertà della quale il Festival di Gdynia, che ha grande risalto nazionale per il suo ruolo di capofila, può vantare. Smarzowski per questo film oltre alla regia si è occupato anche della sceneggiatura, scritta a due mani insieme a Wojtek Rzehak. Le storie di tre preti cattolici in emblematica crisi di vocazione, che hanno ereditato, insieme al vuoto interiore di un presente disilluso, una sfiducia sia per gli altri, sia verso sé stessi, costituiscono le fondamenta marce di un’istituzione ecclesiastica che neanche ai piani alti passa immune alle debolezze umane, semmai guadagna, anzi guadagnava, la certezza di restare impunita in virtù di un processo di occultamento che però dopo il terremoto mediatico avvenuto in Nordamerica è giunto al capolinea.

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