Pollywood, di Pawel Ferdek

Nella sezione Visti da vicino un documentario cinefilo che cambia molte facce, diventando prima un video-diario e poi un thriller, alla ricerca delle radici polacche di Hollywood

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«Un amico mi ha prestato un libro su un gruppo di polacchi, scappati da cittadine smorte come la mia, per dare una svolta alla loro vita». Dall’esempio di quel pugno di uomini che hanno creato Hollywood dal nulla, il documentarista Pawel Ferdek sviluppa il viaggio fisico e morale mostrato in Pollywood. In effetti, l’idea che quei suoi connazionali, solamente («ma comunque») un secolo fa, fossero riusciti ad affermarsi nel mondo dello spettacolo inventando il cinema come lo conosciamo oggi – anzi, come è ormai passato alla storia – era troppo bella per non provarci. E allora in questo film vediamo i momenti salienti del suo percorso, ritmati su immagini di repertorio ben selezionate e guidati dalle parole di professionisti incontrati lungo la strada. La domanda che ossessiona l’autore è: anch’io riuscirò? Esistono ancora quelle possibilità? Esiste quel sogno?
La prima scoperta la facciamo subito, ovvero che l’industria cinematografica non è più da tempo la stessa di una volta. Ma nel proseguire della ricostruzione vien da pensare che non lo sia mai stata. È indubbio che dietro la storia dei fratelli Warner, nati Wrona e figli di un ciabattino emigrato in Canada dal villaggio di Krasnosielc (800 km da Varsavia), c’è tutto un universo da scoprire. Un’epoca di imprenditoria avventuriera, scoperte tecnologiche, scalate sociali. Un momento storico in cui si poteva comprare un proiettore usato e proporre per settimane l’unico film che si possedeva (in questo caso The Great Train Robbery) per un pubblico che continuava a tornare. Oggi il bisogno di quei pochi disperati è diventata la disperazione di tanti, la recinzione intorno alle iconiche lettere sulla collina perché troppi vi salivano per togliersi la vita.

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Ferdek riesce ad evocare tutto questo facendo tesoro di un consiglio ricevuto: «Sii il tuo personaggio». Finge (forse) di essere lui per primo un povero europeo con un sogno, si presenta alle porte degli Studios, lascia messaggi nelle segreterie telefoniche. Addirittura arriva (forse) a pedinare Steven Spielberg per parlarci. In questo modo il documentario cambia molte facce, diventando prima un video-diario e poi un thriller. Dal dialogo con lo sceneggiatore Michael Schiffer, intorno a un fuoco nel deserto dell’Arizona, a Brett Ratner che conclude «i polacchi sono più in gamba di quello che pensi». Un lavoro divertente e divertito, che man mano fa proprie tutte le buone idee delle persone intervistate e le innerva in un racconto ricco di suggestioni.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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