Possessor, di Brandon Cronenberg
Brandon Cronenberg s’impossessa del cinema del padre David per un thriller fantascientifico che stagna tra blanda ultraviolenza e sorvegliati richiami all’attuale capitalismo dei Big Data. Su MUBI
“La famiglia non è sangue. È amore” – riassumeva con encomiabile sintesi il tag apposto alla locandina di La vita invisibile di Eurídice Gusmão, di Karim Aïnouz. Dopo la visione di Possessor, coproduzione canadese-britannica, sembra definitivamente che quella cinematografica dei Cronenberg sia invece più virata quasi esclusivamente verso il legame genetico che quello sentimentale. Ad otto anni di distanza da AntiViral, transitato nella sezione Un certain regard di Cannes che tanti applausi si era guadagnato ma che a noi aveva lasciato più di un dubbio sulla sincerità e sui risultati della sua esibita filiazione, con questo suo secondo film il quarantenne Brandon conferma tutti i limiti della sua prima opera, acuiti dalla consistente distanza temporale tra i due film e da un’età anagrafica che non può più farli scusare come incertezze esistenziali, nonostante il passaggio festivaliero – in questo caso nel concorso World Cinema Dramatic del Sundance Film Festival. Questo insistito richiamo al preclaro padre non è infatti pigra esegesi IMDBiana quanto una conseguenza ineludibile dei precisi riferimenti del lungometraggio. Scritturare proprio Jennifer Jason Leigh nei panni di Girder con un ruolo che è un evidente omaggio alla designer di videogiochi di eXistenZ sembra infatti il sedicente tentativo di completare questa sorta di trilogia cominciata dal padre David nel 1983 con Videodrome con la trasformazione della televisione in Nuova Carne, proseguita nel 1999 proprio con eXistenz che abbatteva in anticipo sui tempi i limiti tra realtà fisica e virtuale e nel 2020 con questo Possessor che specula sull’eterodossia dei comportamenti imposta dai social network attraverso l’utilizzo dei Big Data.
Possessor però nonostante il soggetto verta proprio su questo, manca un qualunque tipo di riflessione originale sull’incontro/scontro tra muscoli e bit, sulla possibilità o meno di una loro riconciliazione nell’era sempre più oppressiva del capitalismo della sorveglianza, sugli infiniti usi applicativi, leciti o non, di un tracciamento delle persone mai così pervasivo. Il regista canadese sceglie di aderire ad una narrazione più thriller che teorica lasciando quest’ultima al livello di un abbozzo filosofico (non spiegare nulla del contesto futuristico qui sembra più una furbata che una propensione verso l’ermetismo di genere) che lo spettatore con le sue conoscenze dovrebbe forse riempire. Ma come se lo stesso Brandon Cronenberg, consapevole dell’esangue ordito della sua sceneggiatura – la storia della possessione digitale/corporea di cui serve la killer prezzolata Vos Tasya (Andrea Riseborough) per uccidere le vittime indicategli da una misteriosa corporation va a pescare dritta nei capisaldi del genere, da Ghost in the shell alla trilogia di Matrix ma perfino in prodotti commerciali come Assassin’s Creed e Self/less – volesse tentate di slabbrarlo andando ramengo nei territori del body-horror.
Così la fantascienza minimal di Possessor a più riprese cerca volutamente le destabilizzazioni del violento ultrarealismo insistendo in un paio di sequenze con mutilazioni e reiterate coltellate allo stomaco. Questi segmenti narrativi rivelano però subito la loro ispirazione spuria dato che non dialogano col resto del film e restano quasi accidenti sanguinolenti in un percorso che invece flirta a più riprese con le derive arty (le allucinazioni dell’individuo impossessato), non aiutato in questo caso dal direttore della fotografia Karim Hussain, già con Cronenberg per Antiviral, che si serve della solita asettica scala cromatica per rendere l’atmosfera.
Anche in questa seconda opera Brandon Cronenberg confonde allora serietà con seriosità: cerca di essere paradigma di temi moderni ma finisce col mettere in scena soltanto depennamenti di lista. Ed è davvero un peccato che il regista si perda in quest’intento compilatorio perché alcuni spunti avrebbero meritato una maggior trattazione, come ad esempio l’invasione digitale compiuta da Colin (Christopher Abbott) ai danni di ignari utenti attraverso vari device per la profilazione di banali tende e tapparelle. Invece nel plot del film fanno capolino Data mining, Body hopping, VR, gender fluid, concetti che il film tange ma, ovvio gioco di parole, non possiede mai veramente.
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Titolo originale: id.
Regia: Brandon Cronenberg
Interpreti: Andrea Riseborough, Christopher Abbott, Rossif Sutherland, Tuppence Middleton, Sean Bean, Jennifer Jason Leigh
Distribuzione: MUBI
Durata: 104′
Origine: Canada, USA, UK 2020