Poveri ma ricchissimi. Un film di Alan Smithee

Esce oggi il trailer ufficiale di Poveri ma ricchissimi, e tra i credits sparisce il nome del regista Fausto Brizzi. Che sia l’ennesimo caso di “sindrome da Alan Smithee”? In sala dal 14 dicembre

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Il web, solerte e meticoloso come non mai, non poteva esimersi dal notare l’uscita di oggi del trailer di quel Poveri ma ricchissimi rimasto improvvisamente senza nome alla regia, per decisione della distribuzione, e per ragioni tutt’altro che ignote. Una vicenda che fa tornare alla mente quella finzione quasi “leggendaria”, ossia quel sostituto-regista di molteplici altri film che, prima di arenare in via definitiva il director ufficiale, trovano un alter ego bell’e pronto nel cassetto. E se Poveri ma ricchissimi venisse accreditato alla fine proprio a quell’Alan Smithee, cineasta-fantasma – al secolo “pseudonimo” – di numerose pellicole? Attivo a partire dal 1969, quando fa la sua prima apparizione tra i credits del film Ultima notte a Cottonwood, ottenendone da subito ottime recensioni da parte della stampa, a scapito di Robert Totten – regista che curò effettivamente le riprese – e di Don Siegel, subentrato a lavori inoltrati, ma anch’egli molto poco intenzionato a farsi accreditare come regista del film.

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Smithee, dunque: con il beneplacito della Directors Guild of America (DGA), il nome entra ufficialmente nel panorama cinematografico hollywoodiano nei casi di “separazione” ufficiale e irrimediabile tra opera e regista, sia essa con o senza volontà di quest’ultimo.
Smithee come anagramma di “The Alias Man”, forse; o più probabilmente come composto nominale (e che ha autorità solo “di nome”, appunto) caratteristico – perché, altrimenti, non un semplice e comunissimo Smith o Smithe? Nome assolutamente individuale allora, ma anche virtuale allo stesso tempo, perché di uno e di mille altri potenziali, sorta di creatore universale che contribuisce ad accrescere in misura maggiore quel senso di incorporeo, quasi metafisico, proprio del cinema, ora (tra)passato al corpo stesso dell’autore. Alan Smithee diventa allora regista per caso tra cinema e televisione, collezionando un numero non indifferente di regie “nominali”: Le rose che non colsi (Jud Taylor) nel 1968, seguìto da molti film degli anni Ottanta, tra cui City in Fear (ancora Taylor), Fun and Game (Paul Bogart), episodi da MacGyver e dalla serie Ai confini della realtà. Negli anni Novanta, è lo stesso Dennis Hopper a essere sostituito da Smithee nel suo Catchfire, interpretato paradossalmente dallo stesso regista, insieme a Jodie Foster; ma dal cinema, Smithee si trasferisce presto anche nel mondo dei videoclip musicali, dei fumetti e, sempre nel cinema, subentra spesso nel ruolo di produttore o sceneggiatore all’occorrenza. Il suo anno d’oro è, però, il 1997, quando è Smithee stesso a diventare oggetto di un film-satira sullo pseudonimo tanto celebrato: esce Hollywood brucia, diretto da Arthur Hiller – nei titoli traslato in Smithee, raddoppiando ulteriormente il senso vertiginoso della storia – con l’attore Eric Idle nel ruolo del protagonista in “carne e ossa”, volto della decadenza della produzione americana, così come dello svelamento brutale di una realtà celata dietro le sue rilucenti patine artificiali.

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Ecco allora la maschera-Smithee intrappolata in un corpo, quello di un film che vorrebbe egli stesso rinnegare come tutti gli altri registi, prima e dopo di lui. Ma forse, più profondamente, è il cinema stesso, preso nelle proprie dinamiche intricate, a servirsi di Alan Smithee per fuggire da sé, dal suo doppio maligno che lo insegue come il peggiore dei fantasmi, e che è appunto la paura del fallimento. Ma comunque sia, the show must go on: il prodotto è pronto per andare sul mercato, e il regista resta – evidentemente – un optional tra mille altri “intorno” al film.

 

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