Presence, di Steven Soderbergh
Un esercizio di stile su grandangolo e soggettiva si scioglie gradualmente in un incubo voyeuristico. Un horror poetico e sussurrato, che è un altro capolavoro firmato Soderbergh
Sì. Presence è un altro capolavoro di Steven Soderbergh. Uno dei più cristallini e assoluti, se proprio dobbiamo essere onesti. Anche se è vero che rischiamo di ripeterci ogni volta su questo cineasta così incompreso e trascurato da un gusto sempre più omologato dalla magniloquenza e dal pigro sensazionalismo del “grande” cinema nostalgico che va tanto di moda oggi. E invece ecco a portata di mano (basta volerlo vedere!) un film “piccolo”, umanista, geniale e moderno. Che oltretutto con Kimi e Black Bag completa, forse, un trittico esemplare sul presente del nostro tempo, frutto della ispiratissima collaborazione tra il cineasta americano e lo sceneggiatore David Koepp. E allora, di preciso, che “oggetto” è Presence? Un teorico paranormale con una macchina da presa che per tutto il film veicola una soggettiva invisibile. Quattro, cinque personaggi più uno. Una casa che diventa una specie di bolla spazio-temporale, attraversata dalle luce accecanti del giorno e dalle ombre della notte. Un film sperimentale che diventa un thriller claustrofobico. Un divertissement che nasconde un film filosofico sul contatto tra gli esseri umani, ma forse racconta anche la (im)possibilità di questo contatto. Che è poi la dialettica su cui si fonda il rapporto dello spettatore con le immagini, con i film. Il desiderio (del cinema) come contemplazione e attesa.
E quindi eccoci davanti a un film sulla presenza/assenza del cinema. Eyes/Wide/Shut. Soderbergh è uno dei pochi cineasti rimasti a credere, per fortuna, che il cinema sia soprattutto una possibilità, ancor prima che una certezza. E in Presence sembra quasi testare insieme a noi quanto sia ancora possibile trovare un punto di incontro tra la tecnica e l’animo umano, tra la forma e la sostanza. Anche qui ci vuole c’è tutta la magnifica precarietà del mezzo e delle immagini per questo breve saggio di 84’ su come far interferire il genere con il racconto di una famiglia con i suoi conflitti, i suoi misteri, forse…i suoi lutti.
In una casa, appena abitata da una coppia con due figli adolescenti, si aggira una presenza inquieta e spaesata. Un fantasma – parola che però non viene mai usata nel film – che sembra imprigionato in questo spazio-tempo astratto e malinconico. Fluttua tra le stanze e i corridoi in cerca di qualcosa, si ostina a seguire Chloe, la figlia minore che ha appena perso la sua migliore amica vittima di una morte misteriosa. Forse vuole proteggerla da una minaccia. “È confuso, non sa perché si trova qui. Il tempo non funziona allo stesso modo per lui” dice la sensitiva chiamata dalla famiglia per capire cosa sta succedendo. E il film, che inizia come un esercizio di stile sulla steadycam e sul grandangolo, gradualmente e inesorabilmente si scioglie in un incubo voyeuristico in cui il “fantasma” come lo spettatore rimane vittima di ciò vede. E così Soderbergh ancora una volta, sussurrando la sua maestria, sovverte le regole del genere, in questo caso l’horror, eliminando lo shock e il fuori campo e costringendoci a vedere come fossimo imprigionati – anche noi, come il misterioso protagonista – in un meccanismo irreversibile che è quello della fruizione inerte delle imagini (di morte, propaganda, bellezza, pornografia, sterminio… fate voi!) a cui siamo sottoposti tutti, oggi. La via di fuga, catartica, diventa allora quella di diventare “attori”, di entrare nelle immagini e nel finale della storia forse per riscriverla o risolverla come in una performance interattiva. Solo allora il punto di vista da invisibile può farsi visibile e quindi liberarsi e uscire dal “meccanismo” e dal set per innalzarsi verso l’alto, in un epilogo zemeckisiano che curiosamente rimanda proprio a Here, l’altro grande capolavoro sperimentale della stagione. Da un cineasta laico come Steven Soderbergh neanche ci aspettavamo potesse arrivare un film così spirituale ed etereo. Sì. Presence è un altro capolavoro.
Titolo originale: id.
Regia: Steven Soderbergh
Interpreti: Lucy Liu, Julia Fox, Chris Sullivan, Callina Liang, Lucas Papaelias, West Mulholland, Eddy Maday, Natalie Woolams-Torres
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 84′
Origine: USA, 2024
























