Principessa Mononoke, di Hayao Miyazaki

Torna al cinema uno dei film più celebri dell’autore giapponese che unisce la concretezza della Storia con la meraviglia estatica garantita dalle immaginifiche visioni.

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C’è una circolarità che rende Principessa Mononoke l’ideale completamento del percorso iniziato da Hayao Miyazaki oltre un decennio prima con Nausicaa della valle del vento (la versione animata del 1984, ma anche quella cartacea molto più lunga e articolata, iniziata nel 1982 e conclusa nel 1994): quasi come se l’avventura di Ashitaka e San voglia porsi come evoluzione di quella storia così lungamente elaborata. Lo fa sia recuperando contesti e temi (il bosco di Mononoke, contrapposto agli scenari desolati delle lande devastate dall’uomo sono molto simili alla realtà post-atomica di Nausicaa), che alcuni isolati passaggi (la lotta iniziale contro il demone-cinghiale riprende alcune inquadrature dell’incipit di Nausicaa con l’insetto gigante).

Non che ci sia da stupirsi, considerando come il tema fulcro del conflitto uomo-natura sia presente anche in altre opere dell’autore, ma è evidente come in questo caso Miyazaki lavori su una traccia che sente come particolarmente pressante e che giustifica perciò l’urgenza espressiva di un racconto tanto capace di essere lucido nella sua trattazione “politica”, quanto trascinante e commovente nel lirismo poetico delle immagini. Ecco dunque la narrazione di un’umanità affamata di un progresso tecnologico che fagocita letteralmente la forza vitalistica e ancestrale della natura: un conflitto che non rappresenta soltanto la distruzione di un ecosistema, ma anche il doloroso solco che gli umani intendono tracciare per tagliare i ponti con le tradizioni incarnate dalle divinita shintoiste che incarnano lo spirito dei boschi. La posta in gioco diventa così altissima: tracciare un ideale punto d’origine, di letterale rinascita e riformulazione degli equilibri, affinché l’umanità possa elevarsi al livello divino, in un gioco di sopraffazione reciproca che trasfigura l’inevitabile percorso di evoluzione della specie, portando a continue escalation di violenza.

La guerra diventa così un passaggio inevitabile di una più profonda pulsione umana connaturata allo sviluppo, e il racconto si adegua con una tensione che sembra abbandonare ogni speranza circa la possibile risoluzione del conflitto: perciò il tono si fa più duro, con violenza grafica esibita e, soprattutto, una tendenza continua a restare sul terreno. Da questo versante, Principessa Mononoke è il film di Miyazaki che meno concede alla leggerezza, la classica figura retorica del volo è praticamente bandita, i corpi percepiscono la pesantezza delle armi (nonostante i tentativi di rendere gli archibugi più maneggevoli) e l’immagine restituisce sensazioni concrete, tattili, vicine alla concretezza della terra e alla visceralità del sangue, dando forma a un’opera ctonia, fino al cataclima finale che sembra davvero concretizzare il termine di ogni cosa. Il lieto fine, anche quando arriva, è comunque sempre mitigato dalla consapevolezza di ciò che è avvenuto e che forse non si potrà mai ricostituire.

Eppure, anche in un quadro così pericolosamente minato, Miyazaki crede nella possibilità di far trionfare la vita fino a quando le forze lo permettono: è per questo che, in un quadro di allucinante disperazione, il film pulsa di una meraviglia estatica riassumibile nelle sequenze mozzafiato con il Dio Cervo e tutte le creature che rendono la foresta uno spazio palpabile nella sua vitalità. E’ interessante notare, in tal senso, come il film lavori sottotraccia per sabotare continuamente il manicheismo che pure lo scontro uomo-natura imporrebbe: cerca di far emergere le ragioni delle parti, una sostanziale dignità che accompagna ciascuno dei due fronti. Il punto di fuga è perciò garantito proprio dalle figure meno allineabili. Da un lato Ashitaka, segnato dalla maledizione eppure pervicacemente ancorato alla vita, che non si allinea con i due fronti ma cerca una impossibile ricomposizione: la sua è la missione di chi ha già raggiunto l’obiettivo, come si può notare attraverso il legame di profonda empatia con il suo stambecco Yakkul, che concretizza davvero l’unione uomo-natura tanto agognata.

Dall’altro lato San, la coraggiosa “principessa spettro” (come da precisa traduzione del titolo originale Mononoke Hime), che seppur schierata senza indugio con il bosco è comunque anomalo elemento umano in un contesto naturale e dunque pure lei disposta a recidere i legami con la propria tradizione pur di trovare il proprio posto. Il che fa del film non soltanto un racconto di conflitti, ma anche una grande epica, intesa come racconto di gesta che creano un tessuto di relazioni complesse, capaci perciò di trovare la loro realizzazione nella messinscena di un mondo: articolato, vasto, abile ad abbracciare tanto la concretezza della documentazione storica, quanto la libertà della sfera più impalpabile e mitica dell’immaginazione, fornita dalle visioni della natura.

Un doppio mondo completo, dove i personaggi sono essi stessi doppi, creature viventi di carne, eppure veicolo di forze soprannaturali, uomini e allo stesso tempo spettri: un mondo che è anche quello di tutti noi, insomma, con le sue regole crudeli ma giuste. Miyazaki pare lo avesse pensato come il suo ultimo film e, in effetti, la grandiosità dell’affresco e la completezza della trattazione lo rendono effettivamente una delle poche opere definitive di fine secolo.

Titolo originale: Mononoke Hime
Regia: Hayao Miyazaki
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 134′
Origine: Giappone, 1997

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5
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Il voto dei lettori
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