PROFILI – Il western selvaggio e furioso: Sam Peckinpah

Il grande cineasta californiano protagonista di una retrospettiva che si è tenuta al Cineclub "Detour" di Roma lo scorso novembre

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Nell’America degli anni ’60 insieme agli accadimenti sono le pellicole cinematografiche a sconvolgere la tradizionale visione del mondo: nelle università esplode violenta la contestazione, mentre lontano da Hollywood il geniale Roger Corman fonda il nuovo cinema indipendente.

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Moralista, spietato, brusco, serioso e soprattutto crudele Samuel Peckinpah nasce in California nel 1925. Cresce in una zona dell’America ancora selvaggia e trascorre l’infanzia tra le vestigia della civiltà di frontiera ascoltando i racconti mitici sui cacciatori e minatori esposti da cow-boys sdentati e da vecchie prostitute. Dopo aver lavorato come sceneggiatore e regista nella serie televisiva “The Westerner”, opera già caratterizzata da un’attenzione inusuale per gli atteggiamenti antiretorici e per una spiccata propensione per le scene di violenza, Peckinpah esordisce alla regia cinematografica a 35 anni, nel 1961, con il più americano tra i generi: il western “La morte cavalca a Rio Bravo” (Deadly Companions). In esso sono già presenti tutti i temi che saranno ampliamente sviluppati in seguito dalla poetica dell’autore: la vita, la morte, il viaggio e, soprattutto, la violenza. Con la seconda regia arriva il primo capolavoro: “Sfida nell’Alta Sierra” (Ride the High Country) del 1962, ma il film non riscosse alcun successo. Benché girato con un budget moderato, il tocco di Peckinpah è evidente nel realismo maniacale dei costumi e delle coreografie, nelle tinte allucinate dei colori (grazie al fido fotografo Lucien Ballard), e soprattutto diviene magistrale nell’ambiguità morale dei protagonisti. La pellicola rappresenta l’archetipo del western crepuscolare ed elegiaco, popolato da eroi falliti e crudelmente nostalgici. L’elemento più patetico della storia viene rappresentato proprio dalla stanchezza e dalla disillusione dei protagonisti, un branco di sudicioni alcolizzati che consuma la propria vita nell’abiezione più squallida.
Il successivo “Sierra Charriba” (Major Dundee, 1965) subisce diverse manomissioni da parte del produttore il quale non accetta il finale apocalittico in cui era prevista la morte di tutti i personaggi. Ancora una volta il concetto di etica e di moralità è ambiguo, e la canagliesca narrazione epica raggiunge il suo apice nel finale dove viene presentato uno scenario di guerra totale di tutti contro tutti. Gli scontri con i produttori di Hollywood lasciano Peckinpah senza lavoro fino al 1969, limitandolo a dirigere un telefilm e a scrivere un paio di sceneggiature.
Il rimpianto del West accompagna i perdenti protagonisti de “Il mucchio selvaggio” (Wild bunch, 1969), dove viene magistralmente evocato il clima di tensione in cui vive l’America del ’68, costretta, dopo l’intervento in Vietnam, ad abbandonare per sempre l’utopia del sogno americano. La violenza ed il cinismo divengono il messaggio universale della pellicola; un messaggio apocalittico quanto lirico: solo una degna morte può riscattare una vita indegna. Tecnicamente il film esprime a pieno la personalità del regista e tocca vertici barocchi soprattutto nelle scene di massa al limite del surrealismo, e nei massacri verso i quali il regista dedica un’attenzione maniacale, tanto che essi si situano tra le scene di montaggio più cinetiche e complesse della storia cinema.

Il successo di questo film consentì a Peckinpah di girare subito il successivo “La ballata di Cable Hogue” (The ballad of Cable Hogue, 1970), in cui molte delle caratteristiche del proprio cinema vengono “deformate”: l’ambigua amicizia virile con il predicatore; il paradossale amore-odio che lega il protagonista al suo compagno; la libidinosa presenza della donna; la farsa della violenza e la ridicola morte dell’eroe.
Cane di paglia” (Straw Dog, 1971) è il primo non-western della carriera del regista ed uno dei film più esplicativi e controversi sulla violenza umana. All’epoca della sua comparsa nelle sale cinematografiche il film fece molto discutere proprio per le tesi che andava a sostenere. La pellicola mette in scena un dramma borghese intriso di un violento e delirante simbolismo, il quale, basandosi sull’insopprimibile bestialità presente nell’uomo, richiama fortemente le concezioni contrattualistiche sullo Stato affermatesi nell’Inghilterra del Seicento, in particolare vengono alla mente le inquietanti pagine del “Leviatano” di Hobbes. Le regole della convivenza civile saltano completamente (in realtà sembrano non essere mai esistite) nell’apologo finale, in cui il mite professore, interpretato da Dustin Hoffman, compie il suo personalissimo rituale di carneficina ed insieme di purificazione, rituale che ha in se stesso un qualche cosa di indissolubilmente atavico.
Il personaggio più autobiografico di tutta la filmografia, assieme all’Hogue dell’omonima ballata, è Junior Bonner de “L’ultimo buscadero” (Junior Bonner, 1972), un ex campione di rodeo condannato a combattere anacronisticamente con la civiltà moderna che avanza, all’interno di una vicenda che si svolge nell’arco di ventiquattro ore.
L’ultimo capolavoro western di Peckinpah è “Pat Garret e Billy the kid” (Id, 1973), in cui i due antieroi, un vecchio bandito convertito alla legge ed un giovane killer, si ritrovano ancora una volta nello scontro finale. Celeberrima la colonna sonora firmata da Bob Dylan, che riveste anche un ruolo, con la canzone “Knockin’on Heaven’s Door”.
Il successivo “Voglio la testa di Garcia” (Bring me the Head of Alfredo Garcia, 1974) tratta ancora una volta del caos anarchico della Frontiera, in cui l’odissea macabra del protagonista si snoda tutta sul tema della vendetta. Con “Killer Elite” (Id., 1975) continua il degrado morale dei personaggi di Peckinpah che adesso sembrano non rispettare neanche più le regole sacre dell’amicizia, in una pellicola eccellente nel ritmo e nell’incastro delle scene, forte di un senso epico della spettacolarità e di ambientazioni imponenti.
Il delirio filmico del regista ha ormai la perfezione di un meccanismo ad orologeria soprattutto nelle scene di battaglia e nei pittoreschi massacri. Immancabile, lo ritroviamo nelle sue ultime produzioni: “La croce di ferro” (Iron Cross, 1977), e in “Convoy-Trincea d’asfalto” (Convoy, 1978) dove ai cow-boys vengono sostituiti dei non meno spietati camionisti.
E’ di nuovo il tradimento a dilagare senza freni in “Osterman Weekend” (Id., 1983), ultima pellicola del regista, ancora una volta centrata dal punto di vista spettacolare malgrado le presunte manipolazioni dei produttori

Nonostante il suo feroce nichilismo, Peckinpah ha saputo toccare, alla maniera di Ford e se non di più, punte di utopismo molto alte, velate da un sottile sentimentalismo: ogni vicenda ha per protagonista un solo eroe, la cui solitudine non è destinata a migliorare, ma al contrario, può risolversi solo nella morte e nei celeberrimi rallenti che visivamente la documentano; ed in ogni morte è insita la presenza di uno spirito immortale che continua a seguire gli uomini nella loro quotidiana lotta per la sopravvivenza.

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