PROFILI – Maria Schell: il corpo, la memoria.

Il profilo della protagonista di "Le notti bianche", di Visconti, visto con gli occhi di suo fratello Maximilian: una donna malata, malata di cinema, per la quale “la finzione del cinema è più bella della vita di tutti i giorni".

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Visto a Roma in un solare autunno del 2002, durante la rassegna "Nuovo Cinema Austria", l'omaggio appassionato che Maximilian Schell con il suo docufilm Mia sorella Maria donò all'ormai anziana sorella, scomparsa pochi giorni fa, rappresenta non solo l'elogio di un attore e cineasta ad un'icona del "suo" cinema, ma un tributo all'essenza del cinema stesso: quell'atto del guardare ed impressionare al tempo stesso che il cinema, come mezzo tecnico oltre che espressivo, possiede.

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Passa più di un quarto d'ora, in quel film, prima di poter vedere il volto di Maria Schell. Nei primi, riservati fotogrammi, solo le mani di lei manifestavano, per analogia, i segni del tempo che il volto – il corpo – inevitabilmente avrebbe rivelato poco dopo. Maria Schell, attrice adorata in patria, al tempo in cui recitava nei film di Siodmak, Clemènt, Visconti; idolo delle ragazze d'Austria, quando trionfava a Cannes e a Venezia, e quando portava con sé oltreoceano i loro sogni di gloria; eroina romantica, quando ritornava in Europa perché l'America era troppo invadente, troppo "americana". La testimonianza appassionata di Maximilian, anch'egli attore di livello internazionale – Topkapi, Chiamata per il morto, La croce di ferro – che già si era cimentato dietro la macchina da presa negli anni Settanta, è rivolta a chi di Maria Schell non conosce neanche il nome, e a chi ne ricorda invece il sorriso o le lacrime vive dei melodrammi di cui era stata protagonista. Non teme di mostrare una Maria Schell che, dopo tanti film, applausi, premi, folle acclamanti, si era ritirata da tutto, e viveva – sola – in una casa di montagna, nella Carinzia immacolata e spettacolare, tripudio della natura in Austria. Non teme di mostrare il suo ritiro da un mondo reale che lei, attrice, forse non aveva mai conosciuto veramente. La Schell viveva a contatto continuo con le immagini dei propri film, proiettate da tanti schermi televisivi sui quali esercitava l'unica scelta consapevole: il potere elettronico del telecomando; ed abbracciava ancora Gary Cooper che le ridona la vista, discorreva con Yul Brynner vestito da Dmitrij, ballava con un triste Mastroianni che si innamora dei suoi capelli biondi, del suo sguardo da ragazza sconsolata. E se ne stava lì, davanti agli schermi, esiliata nella Sant'Elena della memoria.


Il ritratto che Maximilian Schell ha fatto della sorella, resistendo (senza riuscire a sopprimerle) alle tendenze agiografiche che il ricordo familiare porta con sé, è un ritratto crudo, disincantato. Con uno stile che alterna l'intervista al documentario e alla narrazione, Schell ha accostato ricostruzioni di vicende reali della vita di Maria con brani scelti dalle sue interpretazioni più famose. Riprendendola in primo, poi in primissimo piano, poi in dettaglio, costringe lo spettatore – che diventa osservatore compassionevole, quasi un familiare – a confrontare le rughe che segnano il viso della donna con le lacrime che, nei primi piani delle scene di maggior intensità, disegnavano le sue guance, quando era poco più che ventenne. Schell racconta così un doppio corto circuito: il suo film – che prende forma dall'associazione tra documento e invenzione di scena, tra realtà e finzione – rispecchia i processi mentali dell'attrice, che la mettevano in condizione di confondere la vita concreta e l'immagine proiettata, l'essere e l'essere stato, il corpo e la memoria.


Su tutto, lo sguardo ancora trasognato della bella Maria, cui i rigori del Tempo non avevano sottratto una luce dolce e malinconica assieme; uno sguardo che non poteva non guardare all'indietro, il fuoco costantemente fisso su schermi che proiettavano il passato. Era una malattia, quella di Maria Schell; una malattia per cui, come lei stessa diceva nel film, "la finzione del cinema è più bella della vita di tutti i giorni."

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