Queer, di Luca Guadagnino

Il film più stratificato e personale del regista. Magnifico adattamento di un romanzo di culto (Burroughs) e riflessione critica sulla fuga dalle immagini nel XXI secolo.

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Aveva contratto la malattia della morte. La morte era in ogni cellula del suo corpo. Emanava un debole, verdastro vapore di decadimento. Se fosse stato buio, immaginò Lee, lo avrebbe visto brillare”. In una delle sue tante peregrinazioni nei locali di Città del Messico, agli inizi degli anni Cinquanta, il protagonista di Queer di William Burroughs ci presenta così uno dei suoi numerosi compagni di bevute. Soffermandosi sul corpo, sui gesti e sull’aura di decadimento che descrive come quasi olfattiva, Lee ci rende sottilmente partecipi anche del suo personale trauma e della sua intima battaglia contro un’infelicità endemica che non espliciterà mai direttamente. L’omonimo adattamento di Luca Guadagnino inizia proprio da un vapore di luce desaturata che “brilla nel buio” dell’inquadratura mettendo lentamente a fuoco le tracce sparpagliate di vita del suo protagonista. Tra queste, le prime frasi del romanzo di Burroughs dattiloscritte su una macchina da scrivere scoprono da subito le carte del discorso metanarrativo. Sì, perché la storia del cinquantenne americano che cerca di disintossicarsi dagli oppiacei vagando per i bar della capitale messicana, abbandonandosi all’alcool e al suo insaziabile desiderio sessuale, è una sorta di matrice letteraria per l’universo metaforico di Burroughs. Un romanzo breve che sonda a vari livelli istanze autobiografiche come il rapporto con la sua omosessualità, la tossicodipendenza e la misteriosa morte della moglie che lo coinvolge in prima persona.

E allora, il vagare fisico e il divagare verbale di Lee sono ostinatamente declinati al presente perché gli abissi traumatici e le dipendenze lo imprigionano alla superficie del suo dolore. Guadagnino riparte da questo stallo emotivo cercando istantanee vie di fuga: da un lato riproduce fedelmente la caratterizzazione del personaggio (in un adattamento filologico che conferma l’abilità dello sceneggiatore Justin Kuritzkes), attraverso il pedinamento del corpo di Daniel Craig (in un’aderenza fisica ed emotiva totalizzante); dall’altro fa costantemente deflagrare un’infinità di riferimenti intertestuali invitandoci a partecipare attivamente alla ricerca di nuovi referenti emotivi. Esattamente come in Chiamami col tuo nome, l’archivio di forme del passato non viene utilizzato come mero vezzo nostalgico o vintage ma come vettore di una radicale urgenza sentimentale nella vita del personaggio. Le stesse dinamiche del desiderio omoerotico, riassunte nell’incontro con il personaggio di Allerton, non restano mai ancorate a una rivendicazione sovversiva nei confronti dei codici del melodramma classico ma vogliono definitivamente trascendere i confini culturali novecenteschi nel tentativo di comporre un’universale poesia d’amore e dolore. In che modo?

Le referenze vanno dal subversive text dei melodrammi di Douglas Sirk alle decostruzioni moderniste di Reiner Werner Fassbinder o surrealiste di David Lynch; dal fiammeggiante universo barocco e queer di Powell/Pressburger ai riflessi nello specchio dell’Orfeo di Cocteau. Nella riscrittura immaginaria della filmografia di Bernardo Bertolucci, poi, questo è il film di Guadagnino più vicino a Il tè nel deserto. Innanzitutto per l’esplicitazione esistenzialista del rapporto tra i rispettivi romanzi e le biografie degli autori (da Burroughs a Bowles), poi per i riferimenti letterali, come l’inquadratura in plongée degli occhi rovesciati di Lee, visti come soglia metaforica tra realtà fenomenica e fantasmi inconsci da inseguire in paesaggi liminali. A tutto questo va aggiunta la decisiva mediazione della musica: la colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross è la più “classica” (in senso hollywoodiano) scritta per Guadagnino, ma viene costantemente innervata da un repertorio di canzoni utilizzate in modalità antifrastica che aprono impensati link con la nostra esperienza. Pensiamo al grunge dei Nirvana associato in maniera visionaria alla beat generation o al post-punk dei New Order nuovamente utilizzati come veicolo di conoscenza del sé: splendida l’inquadratura prolungata sul primo piano di Lee/Craig perso tra autodistruzione e consapevolezza.

Fermiamoci qui. Perché Queer è un film che può (e in un certo senso vuole) generare processi interpretativi infiniti. Ma, nello stesso tempo, è forse l’opera più intimista firmata da Luca Guadagnino. Un film che ridiscute il gigantismo dei set ricostruiti a Cinecittà e il notevole sforzo scenografico nel paradossale tentativo di fuga da questo scintillante universo iperrealista, facendo diventare Lee uno spettro d’amore, puro sguardo, un’immagine incorporea del desiderio (come nei quadri di Hopper o Estes idealmente citati). La stessa lisergica esperienza finale dell’assunzione dello yaga nella foresta per instaurare una telepatia affettiva con Allerton – un trip a metà tra la danza stregonesca di Suspiria e l’abbraccio fantasmatico del finale di Challengers – porta a termine il processo di dissoluzione dei corpi ponendosi da qualche parte tra lo stile delle avanguardie storiche e un nuovo software di Intelligenza Artificiale.

Insomma, se la fuga sentimentale è sempre una ridiscussione dello statuto delle immagini, la riflessione si fa straordinariamente contemporanea. Queer è nel contempo un magnifico lavoro di adattamento (fedele eppure trasformativo), una colta e sovraccarica riflessione sulla persistenza del modernismo cinematografico nel XXI secolo, infine un film personalissimo che cerca di riconfigurare il desiderio e la libertà in un’immagine inevitabilmente riciclata ma ancora capace di significare qui-e-ora (come si dice spesso in We Are Who We Are). Il punto è questo: piaccia o meno il suo cinema, Luca Guadagnino crede ostinatamente in quel fascio informe di luce che torna a brillare nel finale dando colore e calore al doloroso percorso di una vita mentre riesce finalmente a imbrigliare la morte. Del resto, “quello che Lee cercava in ogni rapporto umano era un senso di contatto”.

 

Titolo originale: id.
Regia: Luca Guadagnino
Interpreti: Daniel Craig, Drew Starkey, Jason Schwartzman, Lesley Manville, David Lowery, Henrique Zaga, Omar Apollo, Andrea Ursuta, Andres Duprat, Ariel Schulman, Drew Droege, Lisandro Alonso, Michael Borremans, Colin Bates
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 135′
Origine: Italia, USA 2024

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.2
Sending
Il voto dei lettori
2.9 (21 voti)

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