"Quella progettualità trasversale che ci spinge a fare cinema". Incontro con Ugo Gregoretti

ugo gregorettiParla Ugo Gregoretti classe 1930. La proiezione al Napolifilmfestival del documentario Il favoloso mondo di “G Il cinema di Ugo Gregoretti (menzione speciale al NFF) diretto dal giovane Luigi Barletta è stata l’occasione per ripercorrere le tappe artistiche di una delle personalità più singolari della storia del cinema italiano

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ugo gregorettiScorrendo la sua filmografia si può riscontrare che la maggior parte delle sue regie cinematografiche sono “film a episodi”. Si tratta di un suo marchio di bottega oppure questa tendenza è imputabile anche a ragioni produttive?

 

Forse non è stato un caso se il mio primo lungometraggio I nuovi angeli è stato proprio un film a episodi prodotto dalla Arco Film di Alfredo Bini (il film è uscito nel 1961 ndr). In questa occasione l’episodicità della pellicola non era stata progettata a tavolino. Avevo cominciato a raccogliere materiale su alcuni giovani napoletani che cercavano di abbordare delle ragazze. Soltanto dopo aver girato in altre regioni italiane il lavoro prese la forma di un film d’indagine sociale sui costumi di una gioventù etereogenea, tanto rampante quanto arretrata.

 

All’inizio degli anni sessanta la sua attività si è incrociata con quella di Pier Paolo Pasolini. Che ricordi conserva di quel periodo?

 

Ci tengo a precisare che non si è mai creata l’occasione di un confronto diretto, umano tra me e Pasolini. Ancora una volta era stato Bini che aveva avuto il coraggio di produrre il suo esordio cinematografico con Accattone un anno prima dell’uscita di I nuovi angeli. Bini era legato da un rapporto di amicizia con Rossellini. Quest’ultimo decise di coinvolgere anche Godard per dirigere un segmento di Ro.Go.Pa.G. Ne venne fuori un film a episodi che raccontava con metafore grottesche le prime avvisaglie del “consumismo all’italiana”. La critica europea lo accolse freddamente. Ricordo però una recensione di Giuseppe Marotta che elogiò il mio “pollo ruspante” (si tratta del titolo dell’episodio diretto da Gregoretti e interpretato da Ugo Tognazzi insieme al figlio Ricky ndr).

 

La sceneggiatura di Le belle famiglie è stata l’occasione di un confronto con la penna “implacabile” di Steno. La vostra coabitazione è stata difficile?

 

Steno veniva da una lunga militanza nei territori di un cinema arguto e ridanciano. Aveva la battuta pronta ed era sempre capace di trovare un doppio senso dietro l’angolo. Ho rivisto questo film dopo più di quarant’anni. Riconosco ancora le mie battute, quelle di Steno le fiammate improvvise di Totò.

 

Nello stesso anno è arrivata la sceneggiatura e la regia di Omicron, uno dei primi tentativi da parte del cinema italiano di realizzare un film di fantascienza “invisibile” senza ricorrere a particolari effetti speciali. Mi chiedo se la visione del film di Don Siegel, L’invasione degli ultracorpi le è ha ispirato questo progetto…

 

Non sono certo di averlo visto in sala. Prescindendo dal risultato, l’idea alla base di Omicron era quella di conciliare in fase di scrittura, fantascienza e satira comica attraverso la figura di un operaio impossessato da un alieno che riesce a tornare sul proprio pianeta dopo aver lasciato il corpo di Trabucco interpretato da un singolare Renato Salvatori.

 

Le sue pellicole nascono quasi sempre da un soggetto originale. Questa caratteristica demarca fortemente il suo cinema rispetto al grand realisme teorizzato da Guido Aristarco  e transportato mirabilmente sullo schermo da Luchino Visconti negli anni sessanta.

 

Ancora adesso il romanzo ottocentesco con le fiction Rai-Mediaset mantiene una forte influenza sui palinsesti televisivi. Si tratta di un “cinema a metà” privato dell’invenzione, di quella progettualità trasversale che ci spinge a fare cinema. Una tendenza che riguarda anche ottimi registi come Daniele Lucchetti che spesso lavora su adattamenti letterari dialogati da altri sceneggiatori. Tuttavia non va dimenticato che anche il sottoscritto ha lavorato ad alcune trasposizioni come nel caso di un Conte di Montecristo realizzato per la Rai nel 1996.

 

A partire dagli anni ottanta le sue incursioni sul grande schermo sono state più sporadiche. L’ultimo film di  Ugo Gregoretti distribuito nelle sale Maggio musicale è uscito nel 1989. Una stagione della riflessione culminata due anni fa con l’uscita della sua autobiografia “parziale” Finale di partita (il testo è apparso con Aliberti ndr)…

 

I margini per girare un film si sono ristretti moltissimo dopo la grande crisi al botteghino degli anni ottanta. Non ritengo di essermi ripiegato su me stesso. Quella progettualità forte di cinema è progressivamente scomparsa insieme alla mobilitazione civile degli spettatori. Ma continuo a respirare cinema anche dietro le quinte. In occasione della grande manifestazione della CGIL organizzata quattro anni fa a Roma siamo andati al Circo Massimo con lo stesso spirito che ci ha unito in occasione dei funerali di Enrico Berlinguer.

 

La realizzazione del documentario collettivo L'addio a Enrico Berlinguer coinvolse registi come Bernardo Bertolucci, Citto Maselli, Ettore Scola e il compianto Gillo Pontecorvo ma anche autodidatti, appassionati e giovani registi all’esordio che donarono le loro riprese per costruire un flusso audiovisivo collettivo di 90 minuti. Si è trattato forse di un ricambio generazionale mancato per il cinema italiano degli anni ottanta?

 

Ho offerto il mio contributo al documentario aiutando Cristina Simoncelli a montare il materiale raccolto da questi giovani registi. Tuttavia non credo ci fossero i presupposti per parlare in senso stretto di un “patto generazionale” tra i padri-figli del cinema italiano e le nuove leve. Sono felice perché alcuni di loro continuano a lavorare come me nel mondo del cinema.

 

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