Questa è la mia vita, di Jean-Luc Godard

Il film più bressoniano di Godard e anche quello con la maggiore influenza del teatro. Dodici quadri, un ritratto di Giovanna d’Arco/Anna Karina in fiamme che sembra un dipinto. Su Chili.

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“La divisione in quadri accentua il coté teatrale, brechtiano. Anche la fine del film è piuttosto teatrale: bisognava che l’ultimo quadro lo fosse più degli altri…il film era un avventura intellettuale. Ho voluto provare a filmare un pensiero in movimento, ma come riuscire in questo intento?… Anche per questo motivo il film è una successione di schizzi. Bisogna lasciar vivere la gente, non guardarla per lungo tempo, se no si finisce per non comprenderci niente.” Jean Luc Godard

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Ritratto della Giovanna d’Arco in fiamme. Il pittore è Jean Luc Godard in dodici quadri rosselliniani sul modello di Francesco Giullare di Dio. La modella è Anna Karina con un trucco e una acconciatura ispirati dalla leggendaria diva Louise Brooks (la Mia Wallace di Pulp Fiction sarà il clone Tarantiniano). Questa è la mia vita, traduzione fuorviante del più ambiguo Vivre sa vie, è una biografia che si basa su una parte documentaria (una inchiesta giornalistica del 1959 sul mondo della prostituzione del giudice Marcel Sacotte dal titolo Où en est …la prostitution?) per poi diventare pensiero in movimento e infine trasformarsi in catarsi poetica sulla splendida partitura musicale di Michel Legrand.

Nanà (Anna Karina) è una ventiduenne che ha lasciato marito e figlio per vivere la sua vita parigina e lavorare nel teatro o nel cinema. Per sopravvivere decide di prostituirsi sotto l’ala del protettore Raoul (Sady Rebbott); nel frattempo si innamora di un giovane (Peter Kassovitz) che ha incontrato in un bar.

Se il jump cut e i falsi raccordi erano la cifra stilistica di Fino all’ultimo respiro, il piano sequenza e i primi piani di Nanà sono gli elementi fondamentali di Questa è la mia vita. La macchina da presa inquadra spesso di spalle i personaggi mentre dialogano, talvolta li impalla con elementi architettonici, altre volte sovrappone i visi occultandoli. Jean-Luc Godard fa guardare in macchina la moglie Anna Karina, ne coglie il profilo nell’ombra e si sofferma sui rapidi mutamenti del volto. La costruzione del personaggio quadro dopo quadro non avviene attraverso la linearità narrativa, ma attraverso la progressiva caduta delle maschere, dall’esterno all’interno, fino ad arrivare all’anima.

Anna Karina è eccezionale nel fare evolvere il suo personaggio attraverso il triangolo di Ethos, Pathos e Logos. Nanà, che richiama l’omonimo personaggio del romanzo di Emile Zola, cerca un percorso di libertà e identità attraverso una via crucis piena di umiliazioni. L’affittuaria che la sfratta, il pappone che la svende, i clienti che ne comprano il corpo, il poliziotto che la interroga nell’ombra, gli imbroglioni che la illudono di farla entrare nel mondo del cinema. Non è un caso che Nanà si identifichi nel grande schermo cinematografico con la Giovanna D’Arco di Dreyer, versando lacrime nel buio della sala.  “Io voglio essere un’altra” dice Nanà al commissariato e cerca disperatamente un modo di stabilire la verità nell’errore, sigaretta alla mano e sguardo felino. L’indipendenza economica significa anche la rottura dei legami di schiavitù. Se le frasi spesso mascherano le intenzioni, è l’amore l’unica forza capace di fare coincidere parole e pensieri, realtà e rappresentazione. Nella lunga dissertazione con Brice Parain, noto filosofo del linguaggio, si ribadisce la distanza tra la superficialità della vita di tutti i giorni e la profondità dei sentimenti che nascondiamo, dei dolori che proviamo, delle frustrazioni che sperimentiamo. Se ci fermiamo a pensare rischiamo di crollare come il Porthos di Alexandre Dumas, perché ci rendiamo conto dell’automaticità e ripetitività dei gesti della nostra esistenza. Non è un caso che i momenti di pura felicità per Nanà dipendano dall’incontro con il giovane uomo al biliardo: prima si scatena in un ballo iconico sulle note di una canzone swing degli anni ’60 e poi ascoltando il testo (a recitarlo con il tono di una dichiarazione d’amore è proprio Jean Luc Godard) de Il ritratto ovale di Edgar Allan Poe, Nanà capisce di essere finalmente innamorata. E l’amore sembra essere l’unico momento di verità di una esistenza in maschera, un fermo immagine che blocca il flusso di gente sugli Champs-Élysées, un urlo di ribellione verso una società avida in cui si uccide per 100.000 franchi. Vincitore a Venezia del Gran Premio della Giuria (ma non piacque a Rossellini), Questa è la mia vita diventa il film più bressoniano di Godard e anche quello con la maggiore influenza del teatro Brechtiano.

Se come dice Michel de Montaigne  “bisogna prestarsi agli altri e darsi a sé stessi”, Nanà in realtà vive la sua vita cercando di affermare un principio di libertà che si scontra con le convenzioni del mondo circostante e con la ambiguità della rappresentazione cinematografica. A questo si aggiunga la distanza tra pensiero e parola, che rimanda alla impossibilità di tradurre con il Logos qualcosa di completamente staccato dal Pathos. Questo scarto tra linguaggio e sentimento rimanda al gap presente tra la realtà e la sua rappresentazione, tra quadro e oggetto ritratto. Lo spettatore/regista compone il mosaico di una vita facendo emergere dalla finzione cinematografica sprazzi di realtà: solo la morte di Nanà può essere la summa di tutte le scelte di responsabilità morale. Ethos si aggiunge a Logos e Pathos. La morte rappresenta l’estremo darsi a sé stessi e attraverso questo sacrificio Nanà ottiene la sua definitiva liberazione in un percorso che da individuale si fa universale. Il pittore completa il quadro con una ultima pennellata che ha il rumore di un colpo di pistola.

 

Titolo originale: Vivre sa vie
Regia: Jean-Luc Godard
Interpreti: Anna Karina, Sady Rebbot, Peter Kassovitz, André S. Labarthe, Guylaine Schlumberger, Gérard Hoffman
Durata: 80′
Origine: Francia, 1962
Genere: drammatico

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
5
Sending
Il voto dei lettori
4.5 (2 voti)
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