Questa è la mia vita. L’universo autobiografico di Judd Apatow (e soci)

Nel mondo apatowiano confessare il vero, tramite l’autobiografia, è la reale magia cinematografica, in cui si compie la catarsi. La terza stagione di Love è disponibile da stasera su Netflix

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Quando lo scorso Natale abbiamo assistito al ritorno di Judd Apatow sui palchi spogli della stand up, ci siamo divertiti mentre si descriveva come un cagnolino sconsolato perso nelle corsie di Sephora, appresso alla moglie Leslie e alle due figlie, Iris e Maude. Quanti uomini, annoiati fra gli scaffali di qualche negozio luccicante, hanno trascinato i piedi dietro ai passi eccitati delle proprie compagne? Questo racconto di Sephora è solo uno dei tanti con cui il poliedrico newyorkese ci apre le porte della sua vita privata, nello spettacolo firmato Netflix. D’altronde la caratteristica di ogni buona stand up è proprio la prevalenza dell’autobiografico, l’apertura ai drammi e ai dilemmi del comico, che come una spogliarellista si sveste dei propri dolori e li condivide con il pubblico, attraverso uno spettacolo estremamente piacevole, conturbante e liberatorio come una lap dance.

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40

Proprio con Funny People Apatow era riuscito a creare un perfetto mix fra la sincerità disarmante della stand up e la commedia come cornice cinematografica, costantemente spezzata da elementi reali di rottura, primo fra tutti affidare alla moglie Leslie Mann il ruolo femminile principale. Per Apatow caratterizzare i propri prodotti con elementi  extracinematografici è da sempre un’urgenza poetica, una fuoriuscita del reale dalla finzione cinematografica, che funge da necessaria terapia catartica. Se pensiamo al precedente Molto Incinta, oltre alla moglie Leslie troviamo anche le figlie Iris e Maude (cresciute poi nello spin off Questi sono i 40), e ancora Steve CarellJames Franco e altri attori che interpretano loro stessi. Questa pratica dell’inserimento dell’autobiografico ha da sempre l’incredibile effetto di creare un disturbo nella finzione, uno strappo cinematografico che ci rende partecipi di eventi che sembrano accadere a un passo dal nostro naso, in una realtà estremamente vicina. Tutti voi nel pubblico potreste essere me” ci dice Apatow nel suo speciale stand up natalizio. Nell’universo apatowiano ci sentiamo sempre al caldo fra le pareti di una casa tanto simile alla nostra, che cambia costantemente arredamento ma solo perchè sposta la disposizione dei suoi mobili.

Qualcosa di simile accadeva con Ben Stiller che nei suoi film inseriva la (ormai ex) moglie Christine Taylor e il padre Jerry Stiller. Ma il cortocircuito ancora non esplodeva del tutto, uscivamo dalla finzione per ritornarci in pieno un attimo dopo, perchè Stiller in un certo senso è da sempre molto legato all’andamento illusorio di una certa narrazione cinematografica (ugualmente necessaria). Nel mondo apatowiano  l’inserimento dell’autobiografico è la vera trovata comica e magia cinematografica, tanto che la narrazione è sempre sacrificata in vista di dialoghi autoreferenziali e attaccati coi denti alle pareti del reale. Così il demenziale non è un prodotto della realtà, come accadeva nel gruppo Frat Pack di Stiller-Ferrell & Co, ma è la realtà stessa ad essere demenziale, volgare e crudele, e tutto è volto a una necessaria distruzione dell’illusione da dentro l’illusione stessa. “Tutti potreste essere me” dice Apatow ma quando parla dei propri drammi non esista a dirci “Non vi preoccupate, io sono pieno di soldi“.  Rendere partecipe il pubblico della verità, dello stratagemma della scrittura e del processo di creazione, è indispensabile come un dovere. Mentire non è neanche da prendere in considerazione. E questo lo sappiamo, perchè Apatow ci mette tutto se stesso, e appena può anche moglie e figlie. La loro presenza nella vita e nelle opere di quest’ultimo, è sicuramente parte integrante della devozione verso l’iperrealistica commedia al femminile, a cui il regista e produttore sembra aver donato il cuore (pensiamo solo a Quel disastro di ragazza, Le amiche della sposa o Girls).

big sick

L’autobiografico nella finzione come terapia catartica è una ossessione che Apatow ha trasmesso anche ai suoi figliocci. Basti pensare ai due film in cui il regista e produttore ha infilato lo zampino, e che quest’anno, sebbene un po’ in disparte, hanno preso parte alla cerimonia degli Oscar: The Disaster Artist e The Big Sick. Di quest’ultimo Apatow è non a caso il produttore, poiché si tratta della storia d’amore travagliata e autobiografica fra l’attore pakistano Kumail Nanjiani e Emily V. Gordon. In The Big Sick c’è molto di più oltre all’essere “tratto da una storia vera”, perchè Nanjiani interpreta se stesso e recita la storia che ha rivissuto e riscritto per lo schermo insieme alla moglie, nel film interpretata da Zoe Kazan. E la domanda è: dove inizia e finisce la finzione, ma soprattutto abbiamo davvero a che fare con la finzione? Così la poetica apatowiana trova la sua massima espressione nei titoli di coda del film, quando una freccia sulla foto matrimoniale indica Emily Gordon come “the real Emily”.  Sotto i nostri occhi un po’ commossi sfilano foto in cui personaggi e attori fanno parte dello stesso mondo, quello cinematografico e quello reale, di cui ormai fatichiamo a trovare una linea di confine.
James Franco con The Disaster Artist continua questa operazione catartica, pratica che sembra aver fatto sua proprio dalla poetica apatowiana. Interpretando Tommy Wiseau, l’attore americano si mantiene in bilico fra autobiografico e finzione. Sono ancora una volta i titoli di coda del film ad essere esplicativi, come uno colpo di scena finale o una confessione ultima. Accostate l’una all’altra scorrono le scene di The Room  accanto a quelle del film di James Franco. C’è davvero differenza fra il Wiseau di Franco e Franco stesso? Il dubbio è costante soprattutto quando l’attore affida il ruolo di Greg Sestero al fratello Dave Franco, sangue del suo sangue. É lo stesso Apatow nelle vesti di un produttore a mettere in faccia a Wiseau/Franco la dura verità, a gridargli che uno come lui non troverà mai un posto ad Hollywood. Così come il suo patrigno newyorkese, James Franco si racconta (e sempre si è raccontato) attraverso il suo cinema, e in questo noi ci riconosciamo… con The Disaster Artist, autobiografia nell’autobiografia, tutti ci sentiamo in un modo o nell’altro come quel Tommy Wiseau, già incontrato tra i mille meme e gli infiniti spezzoni della rete. Il cinema travalica lo schermo e ritorna alla vita, anche attraverso il flusso di Netflix, a cui Apatow affida da tre stagioni la sua creatura più intima, la serie Love, che da stasera presenta i suoi nuovi episodi online:

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