Nella stessa notte uno sceneggiatore (Antonio Albanese) e un carrozziere di borgata (Kim Rossi Stuart) hanno un attacco di cuore: dall'unità coronarica al quartiere del Pigneto, una commedia in cerca della realtà. Dall'omonimo romanzo di Umberto Contarello, Francesca Archibugi trae un film sull'Italia e sul suo cinema. O almeno queste erano le sue intenzioni. Ci è riuscita?
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“L'artistico viene da sé, è l'utile che bisogna volere”: la citazione è zavattiniana e la si trova in chiusura delle note di regia di Questione di cuore, laddove Francesca Archibugi si sofferma a descrivere il proprio lavoro di regista come un atto d'artigianato. Questa, del resto, è una storia di pedinamento, che per giunta ha per protagonista uno sceneggiatore, Alberto (Antonio Albanese), ed è tratta dall'omonimo romanzo (Feltrinelli) di uno sceneggiatore come Umberto Contarello. La dannata visione ombelicale del cinema italiano, insomma, ci sta tutta: altro che prendere il tram o guardare dal buco della serratura, il cuore in questione qui si direbbe quello (ovviamente malato) del cinema italiano, in cerca di prospettive e di verità. Ci fosse un paese reale, le troverebbe pure, ma siccome c'è solo il paese mediatizzato che ci ritroviamo, l'esito della ricerca è arduo. “Desideravo fare un film sull’Italia, anche se in modo sghembo”, confessa, sempre nelle note d'intenzione, la Archibugi, e cita a ruota il Pigneto, il Mandrione, il Quadraro, borgata Giordani, Torpignattara: toponomastica che abbina ai capisaldi del nostro cinema (Rossellini, Pasolini, Citti, Fellini, Germi…) l'idea di “una Roma mai più vista al cinema” (sempre l'Archibugi). L'Urbe/Orbe come corpo scenico di fronte al quale chiedersi: “Come siamo diventati?”.
Questa è la domanda! – per citare Alberto, il protagonista del film, che si muove come un folletto un po' impacciato nella sua depressione da sceneggiatore alle prese col panico della pagina bianca, ma soprattutto attanagliato nello spaesamento esistenziale e sentimentale di chi non sa più dove diavolo sta il mondo, quello vero. La sua ragazza sta per lasciarlo, i produttori lo serrano, e lui smette di stare alla finestra e scende per strada, di notte, seguendo i passi di un malore che lo porta al pronto soccorso, unità coronarica, convinto – a ragione! – di avere in corso un attacco cardiaco. E qui trova una storia, quella di Angelo (Kim Rossi Stuart), un carrozziere di borgata, anche lui con un cuore sfasato, ma dotato di famiglia: moglie, figlia e figlioletto (di nome Airton, in omaggio a Senna…). L'amicizia che tra i due nasce è da manuale della perfetta commedia all'italiana: tipologicamente complementare, affettuosamente virile, reciprocamente invasiva, sociologicamente pregnante… Se questa è una Questione di cuore, non c'è dubbio che trattasi del cuore del cinema italiano: lo spirito zavattiniano evocato dalla regista va in fibrillazione e spinge il protagonista/sceneggiatore sui passi di un cordiale pedinamento della realtà. Dunque: Angelo borgatizza lo scenario borghese dello scriptor in fabula, gli offre la sua vita, il suo quartiere, la sua casa, la sua famiglia…
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Secondo voi quale dei due cuori resisterà alla vita? Quello dello sceneggiatore borghese o quello del carrozziere borgataro? Da quale finestra, alla fine, il piccolo Airton si ritroverà a guardare ed ascoltare la notte con gli occhiali magici dello sceneggiatore in grado di scovare storie da raccontare? Questa è la domanda, tornando a citare Alberto… Perché poi un film come Questione di cuore, la cui regista cita Zavattini e dichiara di aver voluto fare un film sull'Italia; che inizia con un uomo alla finestra e si chiude con un bambino alla finestra… Ebbene, un film come questo si misura proprio dalla finestra del finale, ovvero dalla prospettiva in cui ci lascia a guardare il mondo, a cercare storie, ad ascoltare la vita… Questa è la domanda, perché questo ci sembra essere il nodo morale (parola grossa, ma che volete farci…) di un film come questo. Ché se poi ci si chiede se Questione di cuore è bello oppure no, se è riuscito oppure no, la risposta è semplice, visto che siamo in presenza di una commedia ricca di umanità (un'umanità chiaramente “letteraria”, definita secondo canone), retta da un ritmo di scrittura efficace, affidata a due interpreti che lavorano i personaggi con attenzione (Albanese scontorna in surrealtà e sfiora il giusto registro; Rossi Stuart cerca la verità e trova qualcosa solo quando smette di impastare gli ingredienti del borgataro). Sì, insomma, siamo in presenza di un film che sui titoli di coda lascia pensieri e una certa tristezza, dunque non scorre via indenne. Ma ci sarebbe piaciuto che Francesca Archibugi fosse stata capace di elaborare concretamente quella riflessione sul fare Cinema in Italia che ci sembra una delle intenzioni più concrete del suo film: lo sceneggiatore nella fabula era una chiave d'accesso alla sostanza del rapporto tra cinema e realtà che molto avrebbe potuto dire sull'Italia di oggi e sul suo sistema (industriale e poetico) cinematografico. Peccato che ci si limiti a chiamare Adriano Aprà a interpretare lo psicanalista dello sceneggiatore e ad inscenare i cameo di Carlo Verdone, Paolo Virzì, Paolo Sorrentino, Daniele Luchetti e Stefania Sandrelli al capezzale di Alberto, mentre Villaggio, nei panni di un coriaceo avvocato, redime la memoria fantozziana facendo scudo legale all'attacco dello stato/padrone all'impresa familiare del carrozziere di borgata… In definitiva: volendo l'utile, aspettando l'artistico…
Regia: Francesca Archibugi
Interpreti: Antonio Albanese, Kim Rossi Stuart, Micaela Ramazzotti, Francesca Inaudi, Paolo Villaggio.
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 104'
Origine: Italia, 2009
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bellissimo. l'italia deve e può essere anche questa qua
un film sull'amicizia l'unico sentimento vero in questo mondo falso e medializzato perciò importante, con molti bravi attori anche i giovanissimi e location "vere".. finalmente si vede una Roma che stà scomparendo <br />BRAVA ARCHIBUGI hai fatto un bel lavoro.
…un bel lavoro? Se almeno sapesse dove posizionare la macchina da presa potremmo discutere della regia, ma in questo caso stiamo parlando di una persona cui mancano gli elementi di base della grammatica cinematografica. E non lasciamoci ingannare dalle prestazioni attoriali…