Quills – la penna e lo scandalo

La forzata assenza dallo schermo è uno strano e triste destino che sta accomunando grandi registi statunitensi. Kaufman, Romero, Dante, Milius, Bigelow e Hill. Tutti portatori di un cinema “troppo” personale, troppo “riconoscibile”, tra i più limpidi ed emozionanti degli ultimi vent’anni. Kaufman, prima di Quills non realizzava un film da 7 anni (Sol levanterisale infatti al 1993). Il tempo del suo esilio coincide con quello di Romero (sempre sette anni sono passati da La metà oscura e Bruiser). Forse il suo sguardo è troppo anomalo, forse è troppo ricco, forse è troppo coraggioso nell’unire sequenze da puro cinema d’azione (l’incendio del manicomio) con un seducente erotismo (i corpi “lontani” di Kate Winslet e Joaquin Phoenix) e con l’esibizione di un tono grottesco che potrebbe avere squarci di modelli visivi in Buñuel e Pasolini. La pièce di Doug Wright (autore della sceneggiatura) è sicuramente un solido spartito in cui le forme horror/barocche del cinema di Kaufman possono sprigionarsi prima ed esplodere poi. In questo senso nel suo cinema c’è il gusto ma non il compiacimento di molto cinema europeo. Lo stesso personaggio del marchese De Sade era stato prima utilizzato da certo cinema d’autore europeo, da Peter Brook in Marat/Sade (più concentrato sul rapporto tra immaginario e rappresentazione), a Benoit Jacquot nel recente Sade in cui veniva creato un volontario isolamento del “privato” dalla Storia. Quello di Kaufman è un percorso ancora diverso. In Quills c’è un parallelismo tra lo smembramento fisico della figura del marchese e la dissoluzione originata dalla follia dell’abate Coulmier e della domestica Madeleine. Tracce di una follia che s’insinua in quell’oscurità inquietante che sembra ritornare, come “vuoto tombale” da Terrore nello spazio profondo, in quella seduzione del disfacimento del corpo (segno dei migliori horror degli anni ’80), in quella commistione tra ricostruzione storica e illimitatezza/claustrofobia oltre lo spazio (il manicomio di Charenton viene efficacemente rappresentato in un’estensione non quantificabile ma anche come luogo soffocato) di Uomini veri. Ma al tempo stesso Quills è l’opera in cui la parola è, ancora una volta, atto necessario. La parola come segno di ri/costruzione (L’insostenibile leggerezza dell’essere da Kundera). La parola filmata, resa visivamente nel momento stesso della sua creazione (il marchese De Sade come Henry Miller in Henry & June). Quills è ancora il segno di un cinema che si porta addosso le inconfondibili tracce visive del suo autore, capace di creare sempre personaggi oscuri, inquietanti ma dalla straordinaria forza seduttiva (Joaquin Phoenix e Kate Winslet possiedono veramente un’incredibile consistenza in un’opera satura di forme e volumi). Un cinema capace ancora di sperimentare, di rinnovarsi, di essere quindi “fuori moda”. Forse per questo, già straordinariamente “maledetto”.
Titolo originale: Quills
Regia: Philip Kaufman
Sceneggiatura: Doug Wright da una sua pièce
Fotografia: Roger Stoffiers
Montaggio: Peter Boyle
Musica: Stephen Warbeck
Scenografia: Martin Childs
Costumi: Jacqueline West
Interpreti: Geoffrey Rush (marchese di Sade), Kate Winslet (Madeleine), Joaquin Phoenix (abate Coulmier), Michael Caine (Dr. Royer-Collard), Billie Whitelaw (madame LeClerc), Patrick Malahide (Delbene), Amelia Warner (Simone), Jane Menelaus (Renee Pelagie), Stephen Moyer (Prouix), Tony Pritchard (Valcour)
Produzione: Julia Chasman, Peter Kaufman, Nick Wechsler per Fox Searchlight Pictures/Hollywood Partners/Industry Entertainment/Walrus & Associates
Distribuzione: Twentieth Century Fox
Durata: 123’
Origine: Usa, 2000

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