Rabid, di Erik Matti
Quattro storie per quattro atti, in cui a convergere è l’intero arsenale traumatologico dell’iconografia horror. Manca purtroppo la vena critica del Matti più arrabbiato. Dal Far East Film Festival
“Perché l’hai fatta entrare? Potrebbe avere il Covid!”. La paranoia come contagio, come segno distintivo dei tempi moderni, che filtra anche negli spazi più ristretti delle nostre vite quotidiane. Un nemico/amico invisibile, che accompagna l’esistenza delle persone tanto nei luoghi condivisi quanto in quelli domiciliari, e che in Rabid Erik Matti rilegge alla luce delle sue manifestazioni più orrorifiche e deumanizzanti. È nella tematica della contaminazione (fisica, psicologica, virale) che i quattro antologici atti del film trovano un immediato terreno di comunicazione, legati come sono da un anelito tematico e non narrativo. Un approccio che consente alle singole storie (dalla lunghezza variabile) di giocare sullo sponde di uno stesso orizzonte pulsionale, presentandosi nel contempo come ingranaggi di un mosaico rappresentativo più ampio.
Per risalire alla reale istanza comunicativa di Rabid basterebbe osservare il primo (e più importante ed esteso) atto. Il segmento iniziale del film rappresenta infatti l’attacco del racconto antologico, e insieme la sua sintesi formale e narrativa. Sin dalle primissime scene, è evidente la volontà di Matti di strutturare la storia nel segno di un affastellamento infinito di figurazioni orrorifiche. Nello spazio di pochi minuti, tutto il racconto si adegua all’immagine di film-calderone, in cui a convergere è l’intero arsenale traumatologico dell’iconografia horror. Tra citazioni zombie e spiriti reincarnati, tra terrori folcloristici e sortilegi ancestrali, tutto prosegue in direzione di una contaminazione inter-genere che rievochi in un solo colpo la totalità degli effetti diegetici con cui il cinema ha da sempre generato il sentimento di paura. E in continuità con le opere di Matti, l’evocazione dell’orrore è comunque finalizzata al dialogo con la contemporaneità. Partendo dalle paure del presente, il regista filippino non può allora che trarre l’origine del terrore della sua speculazione filmica dall’attuale (e parzialmente metafisico) scenario pandemico.
Tutti i quattro scenari prendono come cornice la pandemia, insieme alla sintomatologia che la contraddistingue. Alla natura di home-invasion movie del primo atto, in cui una figura stregata sottomette gli abitanti di una casa tramite il “contagio”, seguono un racconto zombie (secondo atto), un horror psicologico (terzo atto) e un dramma cannibalesco (quarto atto) iscritti sotto il segno della contaminazione. Sono gli spazi tipici della pandemia – cioè la casa, l’ospedale e luoghi confinati – a generare qui l’escalation di terrore, portando così la narrazione verso un orizzonte “realistico”. Quel che però manca in Rabid è lo spirito polemico del Matti più arrabbiato e intransigente. Dal punto di vista della formulazione estetica, come da quello contenutistico, niente qui ricorda la profondità critica delle precedenti opere del regista. In On The Job: The Missing 8 (vincitore all’ultimo Asian Film Festival), l’iperrealismo digitale è la direttrice che disvela il marciume nascosto dietro la/e realtà fenomenica (e quella dello stato filippino). In Rabid è il mero veicolo attraverso cui giungere ad un accennato e de-politicizzato senso di immersività.
Titolo originale: id.
Regia: Erik Matti
Interpreti: Ameera Johara, Ayeesha Cervantes, Brace Arquiza, Chesca Diaz, Chrome Cosio, Donna Cariaga, Jake Macapagal
Durata: 110′
Origine: Filippine, 2021