Ralph Fiennes, l'uomo di Sua Maestà

Nome e volto riconoscibilissimi che ben si prestano a diventare icona di un cinema tanto attento all’impronta autoriale quanto al successo al botteghino. Guardando sempre le proprie origini teatrali, ma senza dimenticare mai di giocare e divertirsi: un corpo in grado di abitare l’inquadratura alla perfezione, oggi premiato dall’ingresso nella factory di Wes Anderson con Grand Budapest Hotel.

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C’è una cosa che attira subito l’attenzione, guardando alla filmografia di Ralph Fiennes; un aspetto di quelli tali da suscitare un’incondizionata stima, a prescindere dai gusti, e che lo rende in qualche modo unico rispetto a tanti altri colleghi. Si faccia infatti attenzione ai suoi esordi sul grande schermo, a quei primi titoli che introducono l’elenco di una vasta e rispettata carriera: in quanti potrebbero dire di aver recitato alla loro terza prova in un film del calibro di Schindler’s List di Steven Spielberg (nomination come miglior attore non protagonista)? E alla quarta in un film di Robert Redford (Quiz Show)? E alla quinta in un indiscusso capolavoro degli anni novanta come Strange Days di Kathryn Bigelow? E ancora, per concludere, l’anno successivo, nel pluripremiato Il paziente inglese di Anthony Minghella?

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Una partenza decisamente in quinta, per uno dei più grandi attori inglesi viventi. Non solo un nome ma anche un volto, riconoscibilissimo, che ben si presta a diventare icona di un cinema tanto attento all’impronta autoriale quanto al successo al botteghino (basti pensare solamente al ruolo di Voldemort nella saga di Harry Potter). Certo, il talento non nasce dal nulla e anche in questo caso la preparazione teatrale si dimostra come un requisito fondamentale: Fiennes approda infatti al cinema dopo una prestigiosa gavetta sui palcoscenici inglesi, attività che comunque non ha mai abbandonato neppure in seguito ai grandi riscontri ottenuti in ambito cinematografico.  

Nato a Ipswich nel 1962 da una famiglia aristocratica (è cugino di ottavo grado del Principe Carlo) e primogenito di sette tra fratelli e sorelle (tra i quali ricordiamo Joseph, anch’egli attore, e la regista Martha, che lo ha diretto in Onegin e Chromophobia), approda all’arte della recitazione presso il Chelsea College of Art, prima di entrare alla Royal Academy of Dramatic Art, vero e proprio biglietto di ingresso per la prestigiosissima Royal Shakespeare Company. Il debutto al cinema avviene nel 1992, quando interpreta il celebre personaggio di Heathcliff in Cime Tempestose di Peter Kosminsky, adattamento del capolavoro di Emily Brontë nel quale recita al fianco di Juliette Binoche e Sinéad O'Connor; l’anno successivo Peter Greenaway lo chiama per The Baby of Mâcon e il resto, come abbiamo ricordato all’inizio, è già storia. Quella di un attore in grado di incarnare la personificazione del male assoluto nei suoi aspetti più banali e quotidiani, attraverso il ruolo dell’ufficiale nazista Amon Goeth: un’interpretazione glaciale e superba, di quelle in grado di valere da sole per un’intera carriera, e che invece segna solo l’inizio di un lungo cammino. Il Lenny Nero di Strange Days (poi preso a modello per il fumetto italiano Dampyr, esattamente come accadde a Rupert Everett per Dylan Dog) è un eroe tormentato dall’overdose di frame e da quelle suggestioni cyberpunk che segneranno fortemente l’immaginario collettivo del decennio scorso, per un film che è degno apripista di Avatar e della rivoluzione dell’immagine della società multimediale. Poco più che trentenne, Fiennes dimostra già di saper governare l’inquadratura alla perfezione, senza timori reverenziali verso i generi più disparati: con Neil Jordan rivisita il melò fiammeggiante (Fine di una storia) e il noir à la Melville (il bel remake Triplo gioco), mentre in Spider si affida alle sapienti mani di David Cronenberg per lo straordinario adattamento del romanzo di Patrick McGrath, una discesa nei labirintici meandri della mente umana che è l’occasione – qualora ce ne fosse stato bisogno – per dimostrare ancora una volta la propria statura d’attore, attraverso una mirabile performance che però viene snobbata sia dalla giuria del Festival di  Cannes (dove il film fu presentato in concorso) che dall’Academy.

 

Poco male, in fin dei conti, perché al Nostro piace innanzitutto giocare e divertirsi, e sembra riuscirci tutte le volte: non mancano infatti le digressioni nell’entertainment puro e semplice, anche in termini di blockbuster, lavorando da una parte all’altra dell’oceano. Non sempre con risultati indimenticabili, è vero (The Avengers, ad esempio, trasposizione dell’omonima serie televisiva di culto in Gran Bretagna; oppure i più recenti Scontro tra Titani e La furia dei Titani, nei quali interpreta un poco credibile Ade), ma sempre riuscendo a far convivere la seriosità tipicamente british con una vena sorniona talvolta irresistibile. Nella commedia (Un amore a 5 stelle, In Bruges, Tata Matilda) come nel doppiaggio dei film d’animazione (Il principe d’Egitto, Wallace & Gromit – La maledizione del coniglio mannaro); e anche quando si confronta con un personaggio scomodo come il Dolarhyde di Red Dragon, remake famigerato e mediocre dell’inarrivabile Manhunter, la sensazione è quella di voler attraversare (e contaminare) la produzione hollywoodiana con il proprio inesauribile carisma. Negli ultimi anni Fiennes ha intrapreso anche una carriera parallela dietro la macchina da presa, e l’esordio non poteva avvenire che sotto l’egida di Shakespeare: Coriolanus è una rivisitazione moderna della tragedia del Bardo, nella quale recita accanto a star del calibro di Gerard Butler, Brian Cox e Vanessa Redgrave. Inedita in Italia, la pellicola è stata presentata in concorso alla 61sima edizione del Festival di Berlino, ottenendo tiepidi consensi; del 2013 è invece The Invisible Woman, storia della relazione segreta tra Charles Dickens e Nelly Ternan, presentato lo scorso settembre in anteprima mondiale al Festival di Toronto.

Oggi Ralph Fiennes è un attore che non deve dimostrare più nulla a nessuno, godendosi il meritato successo di una carriera inappuntabile; il suo ingresso nell’universo di James Bond (raccoglie il testimone di M. nell’ultimo, magnifico Skyfall) è quindi un atto dovuto che sapevamo sarebbe dovuto accadere, prima o poi: quello che forse non ci aspettavamo era la chiamata da parte di Wes Anderson per il ruolo da protagonista di Grand Budapest Hotel, il quale – speriamo – segnerà per lui l’ingresso nella factory del grande regista statunitense, accanto a colleghi del calibro di Bill Murray, Edward Norton, Willem Dafoe e tutti quei volti che rendono sempre immediatamente riconoscibile il cinema di Anderson.

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