Rapito, di Marco Bellocchio

Dopo quello di Aldo Moro, Marco Bellocchio racconta un altro rapimento. Un nuovo affondo nei chiaroscuri della storia, sospesa tra i fatti e e le libere ipotesi dell’immaginazione. Concorso

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Nel 1857, a Bologna, città dello stato pontificio, il piccolo Edgardo Mortara, figlio di una famiglia ebrea, viene prelevato dalle guardie papali. Il bambino ha appena sei anni. Secondo l’autorità, è stato battezzato all’insaputa dei genitori ed è destinato, dunque, a una vita da cristiano. Perciò viene condotto a Roma, dove riceve un’educazione cattolica e diventa un pupillo dell’ultimo papa re, Pio IX.

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Dopo quello di Aldo Moro, Marco Bellocchio racconta un altro rapimento. Sì, certo, un caso molto meno eclatante e decisivo per le vicende italiane, ma non per questo meno tragico. Comunque, un altro affondo nei chiaroscuri della storia, in quella terra di mezzo sospesa tra i fatti accertati, documentati e le libere ipotesi dell’immaginazione. In ogni caso pur sempre di un rapimento si tratta, di una sottrazione forzata, di uno stato ambiguo di incertezza, paura, di legami spezzati e da ripensare. Un’altra sospensione, insomma. E che sia davvero questa ormai la condizione precisa del cinema di Bellocchio? L’essere un racconto del limbo, oltre il tumulto dei furori giovanili, ma in ogni caso lontano dalla beatitudine della visione divina, da un paradiso indefinitamente precluso. Il diavolo in corpo è ancora nel profondo e cova un tormento sottile, ma eterno.

Tutto, in fondo, si condensa nell’immagine del piccolo Edgardo che si nasconde sotto la veste del papa. “Dov’è Edgardo? Che fine ha fatto?”, chiede sornione Pio IX, ammiccando all’altro ragazzino a cui tocca di scovare i suoi amichetti. Ma il bambino sa, vede i piedi di Edgardo. Eppure non può dir nulla. Ecco, se il nascondino è una delle figure ricorrenti di Rapito, tra gente che mette la testa sotto le lenzuola o sotto la sabbia, segno anche di una costrizione storica ebraica, è un gioco che non riesce mai perfettamente. Non c’è mai riparo, porto sicuro. Non c’è mai un luogo che ti accoglie davvero. E quindi non c’è mai certezza, stabilità. Edgardo si ostina a ripetere a tutti di star bene, ma poi di fronte al dolore assoluto della madre non può che lasciarsi andare a un pianto disperato, urlando tutta la sua mancanza. Più tardi, di fronte al fratello che ha sposato la causa “usurpatrice” del Regno d’Italia, ribadirà la verità della sua fede cristiana. Ma la ferita nel suo cuore non è rimarginabile, più profonda e ampia di una breccia di Porta Pia. E così, anni dopo, non potrà contenersi davanti alla salma di Pio IX, sputando tutto il suo rancore contro quel “porco di un papa”, cioè il padre putativo che lo ha accolto “con tanto affetto”, ma che, più di ogni altra cosa, gli ha dato l’illusione di un’autorità assoluta a cui sottomettersi tranquillamente.

Ecco, in fondo, se tutto è formula vuota, preghiera vana, rituale esteriore, l’unica religione che riconosce Bellocchio è la famiglia. In maniera istintiva e problematica, certo, una famiglia da cui essere rapiti… come un vincolo inestricabile di norme e tradizioni che soffocano, di rifiuti laceranti. Ma anche di legami viscerali, che si nutrono di amori e sensi di colpa. Epperò, nonostante il sorriso di mia madre, con la sua promessa di protezione, la casa non assume mai la forma di un luogo sicuro. Può entrare chi vuole, introdursi nella nostra stanza da letto, impedendoci il sonno, rapire bambini… Pio IX muore invocando un ritorno alla vergine madre. Edgardo accorre al capezzale della sua, per un ultimo disperato tentativo di salvezza e riconciliazione. Ma non c’è conversione possibile. Condizione di vita è restare sospesi.

Così come Bellocchio, che apre un discorso sulla fascinazione della potenza delle immagini, illusione cinematografica e suggestione cristiana più che ebraica, e si muove tra la venerazione e l’iconoclastia. Tira fuori come sempre il massimo dai suoi attori, un Pierobon lucifero, Fausto Russo Alesi, Barbara Ronchi, Filippo Timi, Leonardo Maltese e soprattutto il piccolo Enea Sala. Ma trova, a volte, nelle figure che si stagliano negli spazi, un’intensità espressiva da muto. Ormai il suo cinema sembra avere una potenza ejzenstejniana, nella costruzione dei quadri e dei movimenti di massa, nei ritmi del montaggio. Eppure materializza il sogno e la visione. Ha una densità, una tensione assoluta che produce sempre uno squilibrio vitale, ma anche una levità tutta sua, sempre più evidente. Continua a girare intorno a un buco nero. Eppure gira, come una danza.

 

Regia: Marco Bellocchio
Interpreti: Enea Sala, Leonardo Maltese, Fausto Russo Alesi, Barbara Ronchi, Paolo Pierobon, Filippo Timi, Fabrizio Gifuni, Andrea Gherpelli, Samuele Teneggi, Corrado Invernizzi, Aurora Camatti, Paolo Calabresi, Bruno Cariello, Renato Sarti, Fabrizio Contri, Federica Fracassi, Michele De Paola
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 125′
Origine: Italia, Francia, Germania 2023

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.6
Sending
Il voto dei lettori
2.88 (74 voti)
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    Un commento

    • Ho inserito questo film nella mia piccola antologia dei film in cui sente parlare piemontese (i bersaglieri davanti a Porta Pia). Gli altri sono La donna della domenica e Sacco e Vanzetti. È solo un gioco, è chiaro, ma sono tre film che meritano di essere visti e anche rivisti.