RAVENNA NIGHTMARE FILM FEST 2006 – Visioni dalla fine del mondo

Il festival romagnolo volge al termine proponendo un cinema estremo e terminale: uno sguardo sospeso sull'abisso dell'uomo e della Storia, senza vincitori e senza consolazioni.

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L'ultima giornata del festival è all'insegna del vuoto, dell'abisso. Abisso inteso come pietra tombale della psiche, dell'umanità, del mondo intero. Non si può che definire tale il cinema proposto da due tra i più estremi e dolorosi film visti negli ultimi anni, ovvero Calvaire di Fabrice Du Welz e Imprint del maestro Miike. Ad aprire le danze è il cinemascope sporco e urlante dell'esordio del giovane regista belga: lo stavamo aspettando da tempo e finalmente eccolo dinanzi a noi, in occasione dell'anteprima del dvd targato Gargoyle (finalmente a dicembre nei negozi: ne riparleremo, quindi). Innanzitutto la trama, semplicissima: un cantante per ospizi in panne in mezzo al bosco, il vecchio gestore di un albergo in disuso, la fine del mondo. Proprio così. This is the end…. Ritorna alla mente l'apocalisse di coppoliana memoria, tanto è forte e devastante l'impatto delle immagini: quello di Du Welz è un universo giunto al capolinea, o meglio, tornato ai primordi. Come in un grande cerchio, l'umanità è nuovamente al punto di partenza, cristallizzata all'interno di un'empasse che non trova via di uscita se non quella terminale. La pulsione sessuale, unica forma ormai possibile di contatto (fisico, spirituale) tra gli uomini, diventa pretesto di sopraffazione violenta e meccanica nonostante la si ostini a chiamare amore; è quello che siamo diventati ed è quello che cerchiamo di nascondere, ma che ritroviamo inesorabilmente ogniqualvolta proviamo ad avventurarci oltre le mura che ci siamo fortificati attorno (ritorna così il binomio città-civiltà /natura-orrore). Il finale, poi, è una visione secca e diretta dell'aldilà: la fine del mondo, appunto. Quasi una versione più estrema di Il Tempo dei Lupi di Haneke. Tecnica matura e consapevole, nessun commento sonoro, sequenze allucinanti (una per tutte: il ballo di gruppo nel bar), colpi di fucile e urla di maiali che rimarranno dentro la testa per giorni: Du Welz sa cosa dire e sa come dirlo. Accorgiamocene ora, prima che venga chiamato a dirigere il remake di un altro classico degli anni settanta.

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Come introduzione al film è stato presentato il cortometraggio Brumes di Guillame Enard: un buon inizio, stimolante e avvolgente, ma svolgimento logorroico e banale.


Il pomeriggio è proseguito con la proiezione di The Forbidden Chapter, curiosa coproduzione italo-iraniana, storia di un serial killer di prostitute a cui dà la caccia un ispettore tormentato. Il film è un prodotto discretamente confezionato, diretto con arguzia e impreziosito da un'ottima fotografia, ma che denuncia man mano un didascalismo che lo rende un ibrido senza un pubblico di riferimento: troppo confuso per lo spettatore occidentale, banale e superficiale per quello orientale.


Ma finalmente il secondo piatto forte: l'episodio oscuro, rimosso e pestilenziale della serie Masters of Horror: Imprint di Takashi Miike. Le vicissitudini da esso subite sono note: commissionato dai producers americani come ultimo episodio della serie, si è visto sbattere le porte in faccia praticamente ovunque, al punto che in America ancora oggi non è stato trasmesso né ha trovato una distribuzione in dvd. In Italia è stato presentato in anteprima lo scorso aprile al Far East Film Festival, e il Ravenna Nightmare ce lo ha riproposto in tutta la sua sconvolgente bellezza. Imprint fa paura, Imprint disgusta, Imprint rimane impresso. Perché mostra in abbondanza feti abortiti e torture varie, certo, ma il vero orrore risiede ben più in profondità: costruito come una serie di scatole cinesi, in cui ad ogni orrore ne fa seguito un altro più grande, fino ad arrivare a quello definitivo, Imprint è il mostro di carne e sangue che è il nostro mondo, Imprint  è il tumore che ci cresce dentro, quello che uccide i nostri figli e trasforma l'amore in morte. Non sappiamo dire con certezza se l'oscurantismo al quale è stato condannato questo ennesimo capolavoro di Miike sia dovuto agli aghi conficcati nelle parti più singolari del corpo (si va ben oltre Audition) o alla visione che vi risiede dietro: non sempre i committenti USA sono così accorti da capire ciò che producono (specialmente quando si ha davanti un film di tale complessità), ma resta il fatto che, purtroppo, la sua diffusione a banda larga è ancora più lontana che mai.

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