Reflet dans un diamant mort, di Hélène Cattet e Bruno Forzani
Lo sguardo di Cattet e Forzani si conferma un continuo, incessante, ostinato gioco dei sinonimi e dei contrari tra cinema, fumetto, fotoromanzo, immaginario pop. Ancora? BERLINALE 75 – Concorso

A 12 anni dall’exploit di L’étrange couleur des larmes de ton corps, che a Locarno 66 divenne istantaneamente un cult, e a 8 dall’altrettanto celebrato Laissez bronzer les cadavres, Cattet e Forzani riprendono le fila dal punto preciso in cui le avevano lasciate, con un esercizio di stile dedicato al cinema di genere principalmente italiano (con Fabio Testi lì a testimonianza esplicita e vivente), che ne omaggia le forme ipercinetiche e le strutture ellittiche, e stavolta espande in maniera addirittura ulteriore il bacino dei riferimenti e dei livelli di lettura, aggiungendo il fumetto nero anni ’60 (soprattutto di area Magnus & Bunker nonostante il rimando esplicito a Diabolik – quindi più Kriminal o Dennis Cobb) e alcune costruzioni stilizzate degne quasi un Seijun Suzuki di quelli più pop.
La vera ragion d’essere dell’esperimento sembra però stavolta quella di chiedersi se sia ancora sensata un’operazione di questo tipo, più di dieci anni dopo il film d’esordio che, allora come ora, traeva ispirazione diretta da Argento o Bava: la centralità, figlia appunto di quei padri maledetti, di uno sguardo “esploso”, fatto di soggettive ingannatorie e di un dispositivo filmico in grado di scandagliare le superfici dei corpi e degli oggetti, alla ricerca di un sussulto sottocutaneo, è il cuore teorico di questo critofilm, come lo era di L’étrange couleur, e infatti si sprecano le diavolerie “a raggi X” in mano a questa superspia in riviera – ciò detto, confessiamo però di fare una certa fatica a trovare una direzione all’impianto, che da un lato chiarisce definitivamente la derivazione letteraria delle inquadrature dei cineasti, dei loro split screen e dei numerosi inserti, mettendole qui direttamente a confronto con le pagine dei fumetti e dei fotoromanzi d’epoca inserite nel montaggio, e dall’altro aggiunge un’ennesima stratificazione con il gioco metacinematografico, dei set della serie di film su questa ineffabile e spietata ladra di diamanti, Serpentik, più in zona Berberian Sound Studio che Manetti Bros, per capirci.
Siamo forse stati tra queste immagini una volta di troppo, per testare ancora insieme a Cattet e Forzani se si siano o meno sgualcite nel frattempo: quello dei due autori sembra un continuo, incessante, ostinato gioco dei sinonimi e dei contrari, come si vede già dall’incipit in stile Morte a Venezia, in cui la lunga sequenza introduttiva su più piani pare essere strutturata sulle varie declinazioni del concetto di “riflesso” (l’acqua, il diamante, il sole sulla pelle e sui piercing della donna in spiaggia…).
Si tratta, in ogni caso, della sezione più stupefacente di tutta l’installazione, che setta la parabola allucinatoria di tutto il pastiche che segue, attraverso una serie di giravolte visive e invenzioni compositive che per un attimo fanno vacillare il baricentro – peccato che poi l’ebollizione vada progressivamente ad esaurirsi, mettendo a nudo una coazione a ripetere che finisce per renderci esanimi come il protagonista, “incastrato” tra le immagini di un passato vissuto nella realtà o solamente sui set, costantemente alla ricerca di un metodo per isolare le singole sequenze più vertiginose delle proprie rivisitazioni mentali. Ma forse è proprio questa l’unica maniera davvero azzeccata per affrontare il cinema di Hélène Cattet e Bruno Forzani.