Registi Fuori dagli Sche(r)mi – I Racconti dell’Orso a Bari

La V Edizione di Registi Fuori dagli Sche(r)mi si conferma fucina laboratoriale. I Racconti dell’Orso ha nella sperimentazione dell’imprevedibilità dell’accadere la più autentica metodologia creativa

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Come da anticipazioni programmatiche, la V Edizione di “Registi Fuori dagli Sche(r)mi” si conferma fucina laboratoriale, non solo nella pianificazione in progress, ma in questo secondo appuntamento più che mai, presentando un’opera che ha nella sperimentazione dell’imprevedibilità dell’accadere e della libertà del divenire la più autentica metodologia creativa, la più complessa densità segnica.
I racconti dell’orso, primo lungometraggio dei giovani registi romani, Samuele Sestieri e Olmo Amato, è il felice esito di una scommessa produttiva (low budget, troupe e cast composti esclusivamente dai due co-autori, crowfounding) che il direttore artistico Luigi Abiusi e il critico cinematografico Rinaldo Censi, dalla platea del Cine-porto di Foggia, non hanno esitato a celebrare, sin da subito, in un fiume in piena di elogi.
Nella sua evanescenza, se non assenza, di sceneggiatura preordinata, si esibisce come carroliana dimensione da attraversare, per chi saprà intra-vedere l’avventura del volo pindarico, ben oltre la “superficialità” dell’immagine stessa, oltre l’abbaglio anestetizzante degli affascinanti paesaggi finlandesi, fiabeschi e incontaminati, che sostengono il film, sino a paventare il rischio di poterlo fagocitare.

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Il pretesto del viaggio e dell’evasione creativa, che ha condotto i registi ad esplorare luoghi ed atmosfere primordiali (elaborando solo a posteriori, in fase di montaggio, un’estetica fotografica ed acustica, vero e proprio esperanto linguistico) trovava unico, preliminare e concreto appiglio significante nei costumi di scena da indossare, per agire i due protagonisti, attanti – icone, del più vasto immaginario collettivo.
Perché, in definitiva, potenza e potenzialità de I racconti dell’orso risiedono entrambe nel lasciarsi trascinare in un gioco incondizionato di riemersione intra ed inter-testuale, che se da un lato invita a nozze i critici esegeti e citazionisti, dall’altro tenta di innescare il più autosufficiente entusiasmo spettatoriale, quella remota, informale, spontanea ipertrofia demiurgica dell’infanzia.

12829334_977353052302109_8853808483495684392_oLa traccia da seguire è davvero elementare (e probabilmente proprio per questo ostica, per lo sguardo più vizioso): in un luogo e tempo indefiniti e misteriosi (tra “Nel paese delle creature selvagge” di Spike Jonze e la fusione sospesa di cielo e terra di “Vita di P” di Ang Lee) ritroviamo una vivace macchia di colore antropomorfa (rosso, inquietudine da fiaba per antonomasia) e un alieno dal volto meccanico (che per fisiognomica rammenta almeno “Wall-E” e “Star Wars”) imbattutisi in un orsetto di peluche ferito, cui prestare aiuto. Nel susseguirsi dei capitoli tematici, che più che ricomporre un intrigo d’azione, cercano di corroborare il conflitto sentimentale di affezione ed empatia coi personaggi, si cela il più tenero squarcio della quinta schermica, l’invito allo spettatore ad entrare nel “gioco” della tessitura drammaturgica con la propria immaginazione: il monaco chiede all’omino rosso “Cosa facciamo ora?” e questi replica “Giochiamo!”, io, tu … e l’osservatore – onironauta, sognatore lucido, svincolato dalla credulità fenomenologica delle percezioni. Dunque, l’incipit fortuito, l’incursione nel sogno – cornice di una piccola “Alice” qualunque, a catapultarci già in media res nel gioco di ruoli, vestiti e svestiti dai personaggi. Inseguitore ed inseguito dapprima (non sarà un nascondino? coda di un sogno ricorrente, cui si aggancia nella variazione onirica il nuovo input del ritrovamento dell’orsetto malconcio?); soccorritori dell’orsetto dopo (siamo già in una nuova storia, saremo in grado di seguirla e orientarvici dentro?.

L’epilogo, infatti, dei due che sorseggiano tè nella stessa casina nel bosco, richiude provvisoriamente il vaso di pandora di tutte le idee, in attesa di essere agite in una eccedenza di senso incontenibile, in una rielaborazione in-funzionale, che non abbia altro scopo che comunicare se stessa, unità plurivoca, colta in una sola ispirazione o all’opposto destrutturazione, fatta a propria immagine e somiglianza, tanto dal genio autoriale, quanto da quello destinatario. Azzardiamo, dunque, un volo o una tangente, a partire dalla primissima inquadratura del film, quell’albero che campeggia monolitico in una distesa verdeggiante, sfiorato da un impercettibile cinguettio. I racconti dell’orso appare, quanto alla sua insondabilità metaforica, simile a quel caposaldo accademico della letteratura, che ha proprio nell’abisso isotopico ed exotopico della stratificazione di lettura, il più inestimabile valore di congiunzione col pubblico più eterogeneo: “Il pianto antico” carducciano, che può cullarci semplicemente nella gradevole onda della facile rima e allo stesso tempo, mai abdicando alla propria dolcezza formale, affondarci nell’incommensurabile umanità di un intero universo po – etico.

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