Rendez-vous 2018 – Xavier Legrand e Léa Drucker presentano L’affido

Il regista Leone d’Argento alla regia a Venezia74, accanto all’attrice protagonista, parlano di sguardi, violenza domestica, potere della donne sullo schermo e oltre. In sala in Italia a fine maggio

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Leone d’argento, premio speciale per la regia a Venezia 74. Leone del futuro – Premio opera prima “Luigi De Laurentiis” a Venezia 74. Tutto quanto per il suo film d’esordio alla regia, L’affido (Jusqu’à la Garde). Si può dire che il regista francese Xavier Legrand abbia avuto un ultimo anno abbastanza intenso, che per adesso sembra non voler finire; oggi si trova all’Excelsior di Roma per presentare il film al Festival del Nuovo Cinema Francese, accanto alla protagonista del film – l’attrice francese Léa Drucker – e tutto intorno a lui si muove velocemente: i giornalisti, i flash, quelli che cercano di raggiungere il regista dietro una delle più grandi sorprese della scorsa Mostra del Cinema di Venezia. Ma Xavier – timido, gentile e super sorridente – non sembra uno con la testa fra le nuvole. Lui si sposta silenzioso tra i tavoli del salotto, mentre le finestre dell’Excelsior lasciano intravedere il primo sole veramente caldo della stagione. E anche se la luce a volte gli fa coprire la faccia e gli occhi, non stacca mai lo sguardo di chi fa le domande. E soprattutto, non abbandona il sorriso.

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Ormai, di fama e premi un po’ se ne intende. Nel 2014, il suo corto Avant Que de Tout Perdre – una sorte di prequel oppure un frammento di L’Affido, con gli stessi personaggi e attori – ha vinto il Cesar per il miglior cortometraggio ed è stato nominato ai Premi Oscar. Poi, scopriamo che la storia di custodia parentale e violenza domestica della famiglia Besson era stata concepita come una trilogia – divorzio, l’affido e l’intento di omicidio – spinta dalla volontà di approfondire attraverso l’immagine un argomento che, secondo il regista, è vasto e urgente. Infatti, per costruire il racconto che l’ha accompagnato per ben quattro anni, tanto Legrand come Léa Drucker si sono impegnati al cento per cento attraverso ricerche, testimonianze, interviste a giudici, genitori e donne vittime di violenza domestica. Adesso che si trovano alla fine del percorso – o almeno, di questo capitolo – entrambi sembrano un po’ perplessi, come se non potessero lasciare alle spalle tutto ciò che hanno vissuto dentro e fuori lo schermo.

Con Xavier e Léa, oggi non si parla soltanto di Cinema. Anche se all’inizio l’analisi

si svolge dentro una cornice cinematografica -galleggiando tra paura, suspense, regia e sguardi narrativi – l’incontro prende un flusso naturale verso la violenza come problematica sociale e di Stato, contro le donne e dentro la famiglia. La prima risposta di Xavier, mette tutte queste idee insieme: “Per rappresentare la paura nel film, sono partito dall’idea di Hitchcock che dice che non è il colpo di fuoco che spaventa ma l’attesa di quello che accadrà. Quindi, ho cercato di far si che lo spettatore avvertisse questa tensione, e che si chiedesse sempre che cosa sta per accadere. Poi, c’è la paura per quello che ci dorme accanto, per gli affetti che hai vicini. Ma è soprattutto una storia sul dominio, perché le donne che vivono in questa situazione di violenza domestica hanno paura di lasciare la propria casa, visto che si ritrovano in una situazione ancora più di pericolo. Il film parla del patriarcato ancora prima di parlare sulla violenza domestica”.

Come se parlasse attraverso il suo personaggio, Miriam, Léa aggiunge un altro punto di vista: Si tratta anche della paura del marito. La sua storia deriva della paura di perdere ciò che possedeva, questo l’ho sentito molto forte in Denis durante le riprese (Denis Ménochet, che interpreta il marito Antoine), soprattutto nella scena della cucina, in cui lui viene privato della sua donna, della sua famiglia e lascia vedere la paura di perdere tutto questo”.

Torniamo alla regia. Essendo un film straziante, una storia stravolgente con dei personaggi in continua sofferenza, come si riesce ad avere uno stacco emotivo che non condizioni lo spettatore, senza perdere di vista l’anima del film? Dove si trova questo equilibrio? Xavier risponde: “Il film si costruisce attraverso i diversi punti di vista che vengono adottati, alla storia s’entra con lo sguardo del giudice che è uno sguardo neutro. Poi, s’esce dal film con lo sguardo dalla vicina che ha chiamato la polizia. Volevo fare sì che il pubblico non fosse ostaggio del film, ma avesse la distanza necessaria per farsi una sua idea. Racconto la storia di questo uomo attraverso i suoi nemici, di un uomo che è un manipolatore. Il fatto che si presenti lo sguardo del giudice, della donna e del bambino, permette allo spettatore di farsi le sue proprie domande”. 

Arriva l’argomento della violenza domestica e contro le donne, e il modo d’affrontarla – corretta o scorrettamente – attraverso il cinema. Già immersi nell’argomento definitivo, ormai, non si torna più indietro. “Ho voluto affrontare la violenza domestica perché è un tema che raramente viene trattato al cinema. Mi sono molto documentato, ho visto molti film che parlavano di questo dramma sociale, e non condivido il modo in cui viene trattato nel cinema. Volevo parlarne in maniera diversa, che aiutasse lo spettatore a comprendere il fenomeno. Ci tenevo ad affrontare questo tema, sia come cittadino sia come uomo”. 

Per Léa, come attrice e come donna, la cosa più importante è la fiducia: “Io mi fido assolutamente di Xavier, penso che lui abbia scritto questo ruolo pensando proprio a me. Questo mi ha permesso di abbandonarmi durante le riprese, e sin dal corto fino al lungometraggio ho visto che era attraverso la sua regia che si veniva a creare l’attenzione. Da parte mia, ho avuto la possibilità di esprimere un altro momento di una donna vittima di violenza, quello dell’abbandono, quando lascia il coniuge e non sa più chi è, e poi deve ripartire da zero per ricostruirsi”. E qual è il passo successivo? Come rispondere alla violenza, senza violenza? “Con l’educazione”, dice Léa. “Creare maggiore strutture di accoglienza per le vittime di violenza. Bisogna lavorare sulle pari opportunità tra uomini e donne, offrire più posti di potere nella società”.

In un film fatto soprattutto di sguardi – di donne, sulle donne e tra donne – come affronta la regia un uomo? Xavier confessa di aver scelto una bella sfida: “Ho svolto un grandissimo lavoro di ricerca, per raccogliere il punto di vista della donna. In generale, almeno in Francia, sono le donne a interrogarsi su questo, i casi di violenza domestica si concludono quasi sempre con le donne che arrivano al livello giudiziario, gli avvocati sono donne. Secondo quello che visto, gli uomini spesso negano la loro responsabilità, come se considerassero se stessi vittime, pertanto legittimano il loro comportamento e non sono consapevoli di quello che fanno. Perciò, non potevo concentrare mio film sullo sguardo di un uomo, perché non ho trovato uno sguardo sincero”. 

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