RENDEZ – VOUS – MASTERCLASS CON LAURENT CANTET

 Moderato dal giornalista de La Repubblica Curzio Maltese, l’incontro è stata una bella occasione per discutere del cinema di contenuti, che per il cineasta francese devono necessariamente riflettere la realtà nel suo molteplice divenire

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 L’annuale appuntamento con la rassegna  del cinema francese, presso la Casa del cinema di Roma, ha reso quest’anno omaggio al regista de La classe, selezionando alcuni dei suoi 6 lungometraggi. Si è cominciato con  l’opera di debutto, Risorse umane, del 1999; a seguire proprio Entre Les Murs, con cui vinse la Palma d’oro a Cannes nel 2008, e la sua ultima fatica: Foxfire, girato in America e tratto da un romanzo di Joyce Carol Oates. Cantet ne ha poi discusso con Curzio Maltese.

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 M: Possiamo dire che Risorse umane e La classe hanno diversi punti in comune, nel modo in cui riflettono la crisi della democrazia attraverso la difficoltà dello stare insieme e di dialogare?

 

C: Sì. Nodo centrale di entrambi i film è l’aver cercato di mettere a fuoco il punto di vista di chi cerca il proprio posto, in microcosmi a partire dai quali è possibile analizzare più ampiamente l’intera società. C’è una profonda difficoltà a comunicare, fra persone per le quali dovrebbe invece essere naturale vivere insieme, e specialmente per La classe ho avuto un approccio più sperimentale all’argomento: mi sono infatti confrontato per un anno intero con i ragazzi protagonisti del film, avendo organizzato una sorta di laboratorio in cui interagivo con ciascuno di loro e sviluppavo man mano l’idea di partenza. Spesso gli insegnanti vogliono che la scuola sia un luogo fuori dal mondo e dal caos, ma è impossibile preservarla dalla confusione esterna e comunque, anche se fosse possibile, sarebbe sbagliato, perché la scuola è anche il luogo in cui si creano cittadini consapevoli. In Risorse umane avevo deciso  di entrare in un mondo che non conoscevo, la fabbrica, e spinto dal bisogno di verificare che il mio lavoro si stesse muovendo nella direzione giusta, ho passato 8-9 mesi a dialogare, a discutere con veri operai al fine di dare un’impronta realistica al film.

 

M: Lavorare con attori non professionisti, specialmente ragazzi, dev’essere stato faticoso: come faceva ad ottenere certe reazioni?

 

C:Attraverso un lungo lavoro, durato come dicevo un anno, durante il quale sono stati tutti coinvolti nella sceneggiatura. Quando incontro le persone con cui vado a lavorare, mai privilegio un approccio documentaristico, perché recitare permette agli attori maggiore sincerità, dal momento che si sentono più protetti proprio grazie alla distanza fra sé ed i personaggi da incarnare. Un esempio è dato da Franck Keita, il ragazzo che interpreta Souleymane: tanto è adorabile nella realtà, quanto fuori controllo sullo schermo, ed il merito è di una perfetta interiorizzazione del personaggio.

 

M: È indubbio che si tratti di scelte lontane dallo star system, cosa non facile all’interno dell’industria cinematografica. In Francia c’è maggior disponibilità a venire incontro a chi fa queste scelte coraggiose, oppure hai trovato ostacoli alla realizzazione dei suoi progetti?

 

C: In Francia c’è una diversità di produzioni tale che, accanto a quella dei grandi budget, coesiste quella che opera per pubblici più ristretti, all’interno di un sistema industriale che contrasta la barbarie del mercato. Risorse umane è stato prodotto per la televisione, poi è uscito sul grande schermo, nonostante mi si dicesse che la gente, dopo aver lavorato tutta la settimana, non aveva voglia di infilarsi in un cinema nel week-end a vedere un film che parlasse ancora di lavoro.

 

M:Questo vuol dire che avete la possibilità di produrre più cose, complice anche il fatto che la società francese ha un’ampia varietà di ambienti sociali, e di conseguenza uno sguardo più ampio diretto alla società?

 

L: La produzione francese è davvero molto estesa e varia, e negli ultimi anni si è concentrata spesso sul sociale. Il cinema deve farsi riflesso della società, e in quanto tale è obbligato a raccontarla.

 

M: Rispetto al cinema italiano, direbbe che quello francese è meno ideologico?

 

C: Ho sempre poca fiducia e molta diffidenza verso il termine “ideologia”, perché credo limiti la complessità dei temi che intendo trattare: a me interessa mettere al centro delle mie storie l’uomo con le sue contraddizioni, stretto fra le sue e le altrui verità.

 

M: Venendo al suo ultimo film, Foxfire, ancora una volta interpretato da giovani attrici non professioniste, cos’ha la portata a mettere in immagini il romanzo di Joyce Carol Oates da cui è tratto?

 

C:Nel libro ho ritrovato tutti i temi che privilegio, cioè come si reagisce alla violenza, come si forma un gruppo, come nasce un ideale e come questo si scontra con la società. Ma soprattutto, c’è la nascita di una coscienza politica, in questo caso femminista, che si sviluppa attraverso molteplici direzioni nella società e che contribuisce alla costruzione di un pensiero. Non mi fa certo sentire a disagio scrivere di donne, anzi, era già successo con Verso il sud. Do loro piena fiducia, affido loro le mie ipotesi che sono sempre pronto a mettere in discussione.

 

M: Ipotesi di un cineasta pessimista, non è così?

 

C: Mi considero pessimista, perché ritengo che ci sia un determinismo sociale più forte dei nostri sforzi, e le persone che lottano per i propri obbiettivi prima o poi si scontrano con la realtà. Importante, però, è che ci siano un’azione ed un cammino per tentare di raggiungere il proprio scopo, perché anche se non lo si raggiunge, solo il fatto di averci provato, di aver lottato, è sufficiente a potersi dire e sentire vivi.

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