Resbak, di Brillante Mendoza

È un ritorno alla forma per il cineasta filippino. Racconta la sporca realtà distrettuale di Manila come monito per la corruzione sistemica del suo paese. Oggi in concorso all’Asian Film Festival

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Prima di Resbak, Brillante Mendoza ha dato l’impressione di essere un cineasta perduto, disperso nei tratti idiosincratici di un cinema superficialmente grezzo. In Ma’ Rosa quanto in Captive, c’è stato poco (o nulla) di quel devastante tripudio audiovisivo attraverso cui il regista ha raccontato la città di Manila (e più in generale lo stato filippino) nelle sue sporche verità urbane, ridotte allo stregua di realtà repellenti, in cui il turpiloquio umano trova la sua sede congeniale. È con grande gioia, se non con un pizzico di sorpresa, che è possibile qui testimoniare il ritorno alla forma di uno degli artisti più interessanti e formativi che il cinema filippino ci ha regalato negli ultimi quindici anni. Perché Resbak eccelle proprio dove i suoi precedenti filmici faticano a lasciare il segno: nella profondità con cui (ri)taglia attraverso l’estetica digitale una porzione di spazio urbano che documenti la frenesia, l’oppressione e la perdizione esperita da coloro che si muovono al suo interno.

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Una dichiarazione d’intenti che attraversa come una lama affilata tutte le sequenze del film. Sin dai primi fotogrammi, infatti, Resbak presenta una naturale compenetrazione tra i frenetici movimenti del dispositivo digitale e l’opprimente realtà urbana a cui esso dà vita, grazie anche all’ancoraggio ossessivo della camera al corpo del giovane Isaac. E come testimonia la frenetica macchina a mano, egli non ha il minimo controllo su ciò che lo circonda. È costretto a rubare motorini per l’influente famiglia Martinez, che ne rivende illegalmente i pezzi per finanziare la propria corrotta campagna elettorale. E finché Isaac non causa problemi, può muoversi agilmente in un contesto di dilagante corruzione, dove ogni azione, gesto e movimento rende manifeste le coordinate (dis)umane che dominano la turpe dimensione cittadina. Una realtà spaziale agghiacciante, che in Resbak assurge a cifra e fondamento significante delle sue stesse basi critiche.

La comparazione di un distretto di Manila a deumanizzante luogo di perdizione è qui esaltata dallo stile grezzo di Mendoza. L’agilità del dispositivo digitale, unita alle sfumature immersive di un tappeto sonoro ai limiti del roboante, porta il protagonista di Resbak ad agire in una realtà urbana profondamente soffocante. Dalle strade brulicanti di persone, ai manifesti tappezzati in ogni vicolo, qui tutto grida ad un senso di estenuante oppressione. Sui muri, come nelle sedi istituzionali, non esiste luogo che non rechi traccia di corruzione, e in cui sia possibile trovare una speranza di salvazione collettiva. Una cornice socio-politica logorante, a cui l’approccio mendoziano dona un’atmosfera opprimente. È la macchina da presa attaccata al corpo di Isaac a tracciarne la parabola all’insegna dell’asfissia emotiva. Così come è l’iperrealismo del digitale a decretare uno scenario filmico avvolgente, in cui la matrice infografica dei pixel proietta il disagio urbano di un territorio sorretto dai pilastri della collusione sistemica.

Da questa prospettiva Resbak si pone in assoluta continuità con le posizioni del cinema filippino contemporaneo. Insieme a registi come Khavn, Raya Martin, Rafael Manuel e il veterano Erik Matti, qui Mendoza usa la camera come mezzo d’accusa all’establishment governativo, al fine di sollecitare gli spettatori/cittadini alla mobilitazione. E li raggiunge attraverso la configurazione di un’intensa esperienza sensoriale, che conduce l’orizzonte digitale verso nuovi lidi esplorativi, rispettando nel contempo l’esigenza comunicativa mutuata dal cinema di Lino Brocka: ovvero l’occhio della camera come sguardo sulla realtà sociale del paese. In Resbak poi la critica socio-politica parte dal micro-livello per arrivare alla macro-dimensione statale, con Mendoza che racconta la corruzione dilagante dei piccoli barangay allo scopo di ragionare sulla degenerazione sistemica del paese. Perché alla fine dei conti, l’interrogativo che il film pone è chiaro: se i singoli distretti urbani sono ridotti allo stato di sottobosco malavitoso, quale livello di corruzione domina i piani più alti del sistema politico filippino?

Titolo originale: id.
Regia: Brillante Mendoza
Interpreti: Vince Rillon, Jay Manalo, Nash Aguas, Bibeth Orteza
Durata: 105′
Origine: Filippine, 2021

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6
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Il voto dei lettori
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