Resurrection, di Bi Gan
Un viaggio nella storia del Novecento e del cinema, dall’innegabile fascino estetico. Ma dal discorso teorico-romantico emerge visione passatista, museale. CANNES78. Concorso.

Senza sogni si può vivere in eterno. È quello che hanno scoperto gli uomini, nel mondo di Resurrection. Ma nonostante questo, alcuni preferiscono continuare a sognare, accettando la consunzione, il decadimento, la fine. Del resto, a cosa servirebbe vivere in eterno senza sogni? Questi pochi resistenti sono una specie di fantasmi, mostri, vampiri, che si muovono ai margini di un’umanità immortale eppure inconsapevole. Al punto da aver smarrito anche il linguaggio del cinema.
È la cornice da cui parte il film di Bi Gan per compiere un viaggio attraverso i cinque sensi, raccontati in cinque diversi episodi. Che sono altrettanti momenti di una storia del Novecento cinese, dagli albori all’ultima notte del 1999, poco prima della “fine del mondo”. Ma attraversare il secolo, da questa prospettiva, significa ripercorrere la storia del cinema. Dai treni che arrivano in stazione, gli annaffiatori annaffiati, i Nosferatu, fino ai primi accenni del tramonto di un’idea di cinema come visione (e condivisione) collettiva. Ovviamente a Bi Gan non interessa la linearità di uno sviluppo narrativo. Sebbene i singoli episodi di cui si compone Resurrection abbiano una chiarezza e coerenza interna, il modo in cui si connettono tra loro si regge sul filo sottile di un punto di vista soggettivo, estetico, sentimentale, teorico. E ricostruire una storia, così come raccontarla, non è solo questione di date, di movimenti, di punti di svolta e archi narrativi. È soprattutto un percorso tra le pratiche, gli stili, le trasformazioni nelle modalità di produzione e consumo delle immagini. Perciò ogni segmento di Resurrection risponde a una forma peculiare: dal primo frammento che attraversa tutta la stagione del muto come una specie scatola magica che si apre nella successione delle immagini, fino al “mirabolante” piano sequenza dell’ultimo episodio, un movimento continuo nella notte e tra le strade piovose di una città virata in rosso. Prosecuzione ideale di quel piano sequenza in 3D di Un lungo viaggio nella notte, che tanto aveva esaltato gli sguardi cinefili.
Certo, è innegabile il fascino dello stile di Bi Gan, che cambia pelle a ogni segmento. A dimostrazione di una padronanza formale, tecnica ed estetica assolutamente matura. Che non diviene pura e semplice prova di forza, sterile esibizione muscolare, nella misura in si cui percepisce l’autentica preoccupazione di rivendicare e preservare tutto il potere magico del mezzo espressivo. Ma è un fascino a cui ti puoi davvero abbandonare solo se rinunci ad addentrarti nella selva “poetica” di segni, di simboli, di metafore, tra specchi d’acqua, pioggia, neve, luce e buio, presenze evanescenti, cera che si scioglie. Solo, cioè, se ti abbandoni al flusso della visione. In cui, certo, puoi riconoscere i riferimenti, i segni di Wong Kar-wai e dei tre tempi di Hou Hsiao-hsien, grazie alla presenza come sempre magnetica di Su Qi. Ma dove puoi anche incontrare momenti di assoluta, delicata bellezza, specialmente nel quarto episodio, quello dedicato all’“olfatto”. Dove l’apparente realismo arriva a farsi davvero poesia, cioè creazione finalmente libera dal peso dei presupposti estetici e teorici.
Eppure, resta la sensazione strana di una specie di impasse oltre la quale Bi Gan non riesce ad andare. Come se tutta quest’insistenza teorica-romantica sulla sostanza effimera e sognante delle immagini, su un’idea di cinema come pratica vampiresca sospesa tra la vita e morte, sulla pellicola che brucia e le sale che crollano, in realtà nascondesse una visione novecentesca, passatista, museale. Ecco, Bi Gan predica una possibilità di resurrezione, eppure guarda indietro, quindi al mondo dei morti. Ma a cosa serve il cinema se non alla vita. È solo restando in connessione con il suo movimento che può continuare parlare ancora alle nostre intelligenze e ai nostri cuori. Nonostante tutte le trasformazioni, gli incendi, i terremoti, le minacce di dissoluzione.