#RFF10 – Cinema e architettura: il festival incontra Renzo Piano

L’architetto, ospite dell’incontro, cita Rossellini che gli ha insegnato a guardare gli occhi delle gente davanti agli edifici. Tra le clip scelte, c’è Zabriskie Point

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“Tu non devi guardare gli edifici, devi guardare gli occhi della gente che guardano gli edifici”: così nel 1977 Roberto Rossellini, girando un film sul Beaubourg, suggeriva ad un giovane Renzo Piano in attesa dell’apertura del suo primo grande lavoro. Quasi quarant’anni dopo, il grande maestro genovese confessa, in una gremita sala del suo Auditorium durante la 10° edizione della Festa del Cinema di Roma, di non aver più perso l’abitudine, ad ogni “edificio ultimato”, di “nascondersi dietro un pilastro e guardare attentamente la faccia che fa la gente”.

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E se “cogliere il riflesso di un edifico negli occhi di chi lo guarda” è un “tipico atteggiamento da cineasta” le analogie tra cinema e architettura sono proseguite, nel ricco racconto di Piano, sul doppio filo di una memoria (personale e professionale) da “ripassare ma inconsapevolmente” come i film amati nella giovinezza. Western e avventura soprattutto, quasi metonimia di un mondo/sogno fatto di “frammenti, avventure e sequenze”.

E come il finale esplosivo di Zabriskie Point scelto da Piano in apertura: “l’architetto come il regista lavora per frammenti/spezzoni. Tutto passa dai frammenti, tu sai più o meno dove vanno a finire però la magia è solo quando i pezzi diventano un tutto e se non lo diventano è troppo tardi per il regista come per l’architetto”. Perché quella in gioco, su entrambi i fronti, è “avventura, ma non metaforica, reale”: come i” 36 terremoti su 38 mesi di costruzione in Giappone” o i 4 tifoni lavorando per due anni nel Pacifico. Scommettendo sul lavoro di troupe/equipe, vero e proprio “esercito”wellesiano “per fortuna non belligerante”: “un grande cantiere è un luogo di tolleranza, dove le culture e le diversità si superano”. Nel segno di un’Europa di cui Piano si professa estimatore “per l’appartenenza al Mediterraneo che non è un mare, ma un consommè di culture e di voci anche disperate”.

Radici europee e “local” che costruiscono i desideri: “come il mare e il cinema per chi nasce nel ponente genovese. Il mare ti fa venire voglia di scappare per andare a vedere cosa c’è dall’altra parte. Il cinema ti fa nascere l’idea che ci siano altri mondi da scoprire e la voglia di andare lontano”. Mare che non è solo quello “per largo” dove a Piano piace andare in barca a vela, ma anche quello del porto “dove tutto vola: le navi, i carichi sospesi” la giardinetta del padre. La passione architettonica per leggerezza “viene da lì” come dalla celebrata lezione neorealista: “una stagione incredibile, capace di cogliere la realtà e di farla volare”.

Con quello spirito di sovversione e “civile/maleducata” disobbedienza che stanno dietro la fama Beaubourg e permettono all’architetto, come al regista, “con un po’ di fortuna, di farsi interprete di un cambiamento”: “quando iniziammo il Beaouburg eravamo matti, cattivi ragazzi, vincemmo questo concorso perché decidemmo di farlo come secondo me doveva essere, un insulto all’atteggiamento elitario e intimidatorio dei luoghi di cultura”.

In questa dimensione per eccellenza “aperta alla gente” e “antiautoritaria” i progetti dedicati da Piano al mondo del cinema pure presentati ieri mescolando immagini e ricordi: dalla sede della Pathè, a Parigi, alla Casa dell’Accademy a Los Angeles. Perfetto esempio quest’ultima di architettura (cinema) sequenze: “il cinema va per sequenze come l’architettura, ma mentre nel cinema lo spettatore sta fermo e lo spazio si muove, nell’architettura è il contrario. In entrambi i casi, è sempre un passare dalla luce all’ombra, dallo spazio compresso allo spazio espanso, da uno spazio silenzioso a uno rumoroso”. Così nel museo di Hollywood l’idea di sequenza, di passare/salire da uno spazio all’altro, è uno degli elementi focali”.

La morale se c’è è quella “romantica solo per gli sciocchi” di un grande mestiere d’arte (l’architettura come il cinema come la musica o un buon libro) che è una “strana miscela tra arte, tecnologia, scienza, umanesimo” e se è utile lo è “come fare un film e come è utile la bellezza: una cosa che serve a rendere le persone migliori e a cambiare il mondo”.

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