Rheingold, di Fatih Akin

Akin parte bene ma cade nelle solite trappole. Rheingold è un altro dei suoi film laboratoriali, una fredda girandola di generi che non si accorge di quanto cinema rimanga fuori campo. Grand Public

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Forse non c’è progetto migliore, per raccontare il cinema d’esportazione di Fatih Akin di un film sull’hip hop, musica meticcia per eccellenza, ancor più quando, come in questo caso, si riflette sulla sua variante europea. Questo Rheingold è in effetti uno stranissimo biopic sul rapper Xatar (e tratto dalla sua autobiografia), nato in Iraq da genitori curdi e cresciuto in Germania, che dopo anni passati nel sottobosco criminale tra Bonn e Amsterdam, culminati in una rocambolesca rapina ad un carico d’oro, seguirà le sue ambizioni, fonderà un’etichetta hip hop e registrerà il suo album d’esordio in carcere.

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Akin deve in effetti percepire un certo legame con Xatar, tanto da voler fare un passo indietro, abbassare il ritmo e costruire attorno alla sua vita, almeno in apparenza, un film sobrio, tutto ad altezza uomo. In realtà si attiene al suo proposito a fatica, a tratti il racconto esorbita comunque, tra ralenti, stacchi di montaggio, deviazioni nella violenza più cruda, ma la sua mano è abbastanza ferma da gestire un primo atto che si muove tra rilettura della Storia dal respiro epico e prison movie asciutto tutto piani stretti e corpi sofferenti. Non inventa, come al solito, nulla di nuovo, Fatih Akin, ma è appassionato, avvinto dalla rocambolesca vita del rapper. Eppure il suo interesse non basta a tenere la barra dritta. Rheingold ci mette infatti pochissimo a perdere la bussola. Fatih Akin non afferra evidentemente il centro della vita di Xatar, una storia di redenzione, rinascita e orgoglio identitario, che, ripensata per lo schermo, non pare avere né il respiro dell’affresco socioculturale di Straight Outta Compton, né il passo del racconto “mitico” del self made man dell’ 8 Mile di Hanson. Akin rimane come sempre in superficie, ma qui, forse, il suo errore più grande è quello di lasciar fare tutto al testo di partenza, su cui agisce pochissimo (lo raccontano bene certe lungaggini della scrittura) e da cui si lascia guidare pedissequamente.

È evidentemente l’inizio della fine. Perché Rheingold procede sempre più per inerzia, esondando in una girandola di generi (c’è di tutto, dallo sportivo al mafia-movie, passando per l’heist movie) senza continuità ma soprattutto senza riflettere davvero sul loro rapporto con il racconto. Perché tutte le idee di cinema che sfiora Rheingold non sono spunti di sperimentazione ma punti di fuga, attraverso cui, forse, Akin prende tempo in attesa della chiave di lettura più adatta per raccontare la sua storia. Ma è una ricerca vana, a cui, anzi, il regista rinuncia velocemente, accontentandosi di gestire stancamente un film che nell’assecondare le sue traiettorie si disperde sempre di più e scade nella tradizionale, furba “leggibilità” del regista, priva della scintilla passionale del primo atto e che, anzi, sempre più rende evidenti rimandi e derivazioni delle singole sequenze (tanto che tutto il segmento ad Amsterdam pare un’appendice della trilogia del Pusher di Refn). Fatih Akin riemerge, forse, solo in certe fiammate, nell’interessante rilettura “found footage” della rapina o in certe parentesi melò. A giovare del rigido passo del film ovvio, il protagonista Emilio Sakraya, costantemente in scena e capace di inscrivere nel suo corpo tutte le linee “di genere” lambite via via dal racconto. A perdersi per strada, al contempo, la musica, il business, l’epopea di affermazione artistica, sempre più diluita, relegata a parentesi che faticano a collimare con un racconto che vorrebbe andare da tutt’altra parte.

Eppure sembra improvvisamente ridestarsi Rheingold quando, nell’ultimo atto, racconta la registrazione dell’album clandestino di Xatar. Qui Akin pare tornare ad avere il controllo di un racconto che finalmente, pur ben ancorato ai soliti binari, pare avere interesse a far andare di pari passo sguardo della regia e arco del protagonista. Ci sarebbe un intero film nascosto in quel processo creativo “piratesco”, fatto di tentativi, fallimenti, invenzioni, sotterfugi, felicemente tensivo, ma nessuno sembra accorgersene.

E allora, anche Rheingold non può che essere un altro film “laboratoriale” di Fatih Akin, un viaggio tra i generi incolore che vorrebbe raccontare le traversie di un’umanità in viaggio ma che ne cattura l’essenza solo a fatica.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.4
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Il voto dei lettori
3.5 (4 voti)
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