Rich Flu, di Galder Gaztelu-Urrutia
Il regista di Il buco torna con un disaster movie critico verso lo scenario socio-economico mondiale, che ne dimostra la coerenza pur peccando di semplicazione. Dal Bruxelles Fantastic Film Festival

Il punto di partenza è il cinema, che per Laura, rampante produttrice, potrebbe rappresentare una via d’accesso a un mondo vip in cui trovare quel benessere che la vita privata non sembra darle (c’è un divorzio con annessa causa di affidamento della figlia in atto). Il personaggio ci viene così introdotto mentre passa al vaglio varie idee per film da realizzare, sempre più impegnati e provocatori, in una sorta di ideale risposta/prosecuzione alle audizioni di morettiana memoria (con riferimento alla scena cult di Il sol dell’avvenire ovviamente). Di fatto sembra anche un modo con cui il regista Galder Gaztelu-Urrutia ironizza sul destino del suo precedente Il buco, premiato in vari festival e poi finito a foraggiare la fame da what the fuck di Netflix. E il fatto che Laura di cognome faccia “Palmer” non può che ingrandire la vertigine dei riferimenti e metterci di fronte al fatto che la cinefilia di Gaztelu-Urrutia ha qualche ambizione in più.
Subito dopo, infatti, Rich Flu prende una piega diversa, e ritorna ai temi della lotta di classe che già avevano animato il film precedente: introdotta nel “giro che conta”, Laura si ritrova così nell’epicentro di una crisi mondiale portata da una febbre che colpisce solo gli elementi più facoltosi della società, con annesso collasso del sistema economico. I ricchi sono perciò costretti alla fuga mentre le città si paralizzano in un riverbero abbastanza dichiarato dell’era Covid, preludio solo ai successivi disastri fatti di rivolte e caos, perché il sospetto prevale non appena si manifestano i segni del male – con i denti che diventano brillanti, sublime ironia che rovescia le iconografie “vincenti” dallo yuppismo all’italica berlusconiana memoria.
Nel mettere in scena questa distopia economico-sociale, il regista spagnolo cerca ancora una volta elementi di trasversalità, focalizzandosi su una protagonista abbastanza fuori posto rispetto al contesto in cui pure si è voluta inserire, alle prese con dinamiche tanto macroeconomiche, quanto profondamente umane e legate a famiglia e affetti. Una donna che ha imparato a fingere per lavoro e ora deve nascondersi dalla verità di un mondo che nel frattempo si è rovesciato. Il collasso sociale Gaztelu-Urrutia lo rappresenta con una messinscena di tipo soderberghiano (pensiamo a Contagion), che restituisca cioè il quadro generale attraverso prospettive “strette” sui personaggi e che affastellano vari punti di vista in un ritmo molto sostenuto, per dribblare le evidenti difficoltà portate da un budget limitato – che è a sua volta un’altra contraddizione perfettamente dentro/fuori il gioco di verità e finzione del film, le grandi ambizioni e le piccole dinamiche commerciali.
In questo modo, la fuga di Laura diventa quasi un percorso a ritroso che la porterà a diventare una migrante del mar Mediterraneo, segno di come le distopie del nostro tempo riconducano comunque a location e tragedie ben precise. Il quadro è articolato anche se l’insieme pecca inevitabilmente di qualche ingenuità, complici le esemplificazioni portate dalla confezione da film catastrofico – i primi a morire sono regnanti, politici e papi perché iconograficamente più incisivi nell’immaginario globale, sebbene poi di fatto restino abbastanza fuori dalla lente executive, multinazionali e agenti della borsa che più di altri tirano le fila del mondo economico. In questo la metafora della piattaforma in Il buco rimane ancora più forte e il film risulta più interessante che realmente riuscito. Presentato in concorso alla 43ma edizione del Bruxelles Fantastic Film Festival.