Rififi, di Jules Dassin

È il film-capostipite dell’heist movie. La memorabile sequenza della rapina ha ispirato tra i tanti Kubrick e Melville, con Truffaut che lo ha definito il miglior noir di sempre. Su Amazon Prime Video

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Da una prospettiva storica, così come da quella produttiva, Rififi (1955) occupa una posizione di rilievo nel panorama filmico del noir. Servendosi dei codici linguistici che hanno reso grande il genere in America – al cui sviluppo Dassin ha dato un grande contributo – il film del regista evade dalla cornice di riferimento, per trasferirne la grammatica verso nuovi orizzonti estetici. In Francia, come negli USA, è difficile al tempo intravederne un omologo, o quanto meno un suo reale predecessore. Se prima del 1955 la messa in scena delle rapine è solo uno dei tanti strumenti con cui caratterizzare i criminali, senza mai assurgere a centro significante del racconto, qui diviene il fulcro, il mezzo e l’incipit da cui irradiare i processi di significazione, la genesi narrativa di qualsiasi scelta creativa. Un andamento che non solo enfatizza i codici di linguaggio del noir, ma che li direziona verso la codificazione di un “nuovo” genere, di cui Rififi – insieme a Bob il giocatore (Jean Pierre-Melville, 1955) – ne rappresenta il capostipite e prototipo estetico: l’heist movie.

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Nel raccontare la storia di Tony “il laureato” (Jean Servais), un rapinatore di gioielli che uscito di prigione, organizza insieme alla sua banda un grosso colpo ad una banca francese, Dassin struttura il racconto in funzione dell’imminente rapina. Nell’intreccio, come nei conflitti dei personaggi, in Rififi tutto tende alla costruzione dell’attesa, alla delineazione di azioni che rendano la messa in scena del “colpo” coerente e emotivamente coinvolgente. L’attenzione riservata nel prologo al reclutamento dei componenti della banda e al movente del protagonista, è in questo senso una vera dichiarazione d’intenti, con la definizione dei preparativi a cementare le relazioni tra personaggi, che saranno messe brutalmente alla prova nel terzo atto (o nel post-colpo). Si arriva così al segmento centrale del film, dove l’oggetto d’indagine della narrazione (il dispiegamento della rapina) non è solo materia cardine del racconto, ma mezzo, strumento e veicolo per una teorizzazione formale dei suoi codici.

Una frazione diegetica imprescindibile, quella del colpo, che entra immediatamente nell’immaginario collettivo anche per la sua (apparente) configurazione estranea. Se fino a quel momento Rififi si serve della parola come specchio verbale attraverso cui riflettere la personalità e il pensiero dei protagonisti, si assiste adesso ad un’inversione dei codici. È il silenzio a dominare qui il racconto, costituendone il sostrato estetico oltre a quello narrativo. E nell’eliminare il dialogo dalla sequenza della rapina, Dassin (ri)torna ad un’essenzialità di linguaggio per decretare i prodromi di un nuovo corso filmico. Per 32 lunghi minuti, tutto procede per immagini (senza neanche l’ausilio della musica), in quello che sembra un vero cortometraggio stagliato sullo sfondo di una cornice narrativa più ampia. E proprio come in un film-nel-film la sequenza assume un ritmo tutto suo, strutturandosi anch’essa in tre micro-atti. All’apertura del colpo (prima frazione) con i suoi preparativi, segue il dispiegamento della rapina (seconda frazione), fino ad arrivare alla fuga dalla banca (terza frazione). Un approccio estetico quasi avveniristico, che incorpora le dinamiche del cinema muto, per introiettare la sua memoria nella codificazione di un nuovo genere (o sottogenere).

L’importanza culturale (e produttiva) di Rififi non è ravvisabile solo nella sua veste di film-prototipo. Attraverso la contaminazione di puro realismo – visibile già in La città nuda (1948) – e stilizzazione formale, apre di fatto la strada al polar francese (insieme di poliziesco e noir), il genere di riferimento del cinema transalpino anni ’60 e ’70. Un film cardine, che ispira Truffaut per Tirate sul pianista – tanto che lo etichetta come il “miglior noir di sempre” nonostante fosse basato sul libro più brutto che il cineasta avesse mai letto – oltre a presentarsi come uno dei riferimenti primari per la sperimentazione di Fino all’ultimo respiro, il formalismo di Le cercle rouge e la struttura narrativa di Rapina a mano armata (Stanley Kubrick, 1956). Il reale testamento di un’opera, che a distanza di sette decadi, continua a sorprendere per l’audacia con cui teorizza un ponte sincronico tra cinema muto e sonoro, prefigurando allo stesso tempo le prime innovazioni della Nouvelle Vague.

Titolo originale: Du rififi chez les hommes
Regia: Jules Dassin
Interpreti: Jean Servais, Carl Möhner, Robert Manuel, Jules Dassin, Janine Darcey, Pierre Grasset, Marcel Lupovici, Robert Hossein, Dominique Maurin, Magali Noël, Marie Sabouret, Èmile Genevois, Claude Sylvain
Durata: 118′
Origine: Francia, 1955

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.7
Sending
Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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