Rita Hayworth. Cent’anni “atomici”

Il prossimo 17 ottobre ricorre il centenario dalla nascita della rossa di Hollywood: da Gilda a Stephen King, una mitologia che resiste tra Orson Welles e Duccio Tessari

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«Sono nata sotto il segno della Bilancia. Dicono che dovrei essere, perciò, molto equilibrata. Sarò un’eccezione. Infatti nella mia vita sono sempre andata avanti a colpi di testa».

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Non risulta mai facile (ri)celebrare un personaggio consacrato a mito senza tempo. Il caso di Rita Hayworth non è da meno, anzi, perché a differenza di altre icone divistiche, la chioma “infuocata” di Hollywood non ha racchiuso unicamente il mondo dell’attorialità durante la Golden Age della mecca del cinema, ma ha contaminato anche i campi della danza e, va da sé, dell’erotismo più puro.
Ben prima che bellezze burrose come Marilyn Monroe o Elizabeth Taylor potessero godere a pieno del loro nome stampato sui cartelloni dei cinema di tutto il mondo, Rita Hayworth aveva già conquistato intere platee di spettatori con la semplice mossa di un guanto sfilato mentre intona Put the Blame on Mame: abito scuro e succinto; spalle nude; capello sciolto; sguardo a metà tra innocenza e malizia. Tutti gli occhi sono puntati su di lei, Rita è Gilda, la femme fatale che diventerà la sua ombra, e che non la abbandonerà più. Era il 1946 e Hayworth ricevette la definitiva consacrazione tanto agognata fino a quel momento.
Dopo porte sbattute in faccia (nel 1936, per Ramona di Henry King, Darryl F. Zanuck la scartò a favore di Loretta Young) e molte perplessità (il burbero Harry Cohn, capo della Columbia, non credeva che l’attrice potesse avere le qualità adatte per assurgere all’olimpo divistico) l’immagine di Rita venne finalmente messa in luce, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “Atomic Bomb” dalle truppe dell’esercito americano.
Ma il successo di Gilda non è ovviamente l’unico tassello rilevante della vita di Hayworth. Occorre fare un passo indietro per comprendere le varie tappe che hanno scandito la carriera di questa bella, inquieta e, soprattutto, fragile creatura.

Nata a Brooklyn il 17 ottobre 1918 da Volga Haworth ed Eduardo Cansino, originario dell’Andalusia, entrambi attori e ballerini, la piccola Margarita Carmen respira fin dai primi anni di vita l’aria frizzante del palcoscenico, affiancando i genitori nei loro spettacoli di varietà. Seppur con la spiccata vocazione della danza e della recitazione, la giovane deve subire la continua pressione paterna verso una maniacale, quanto utopica, perfezione performativa. Successivamente, all’età di 17 anni, Margarita viene messa sotto contratto dalla 20th Century Fox con cui realizza cinque film di fattura mediocre e accreditata come Rita Cansino. Si possono citare La nave di Satana (1935) con Spencer Tracy e Human Cargo (1936) con Claire Trevor.
Parallelamente a ciò, la giovane conosce Edward Judson che diventa sia suo agente che marito. E

attirandosi le ire dei genitori di lei, contrari alle nozze.
Secondo i biografi di Rita, Joe Morella ed Edward Z. Epstein, l’attrice avrebbe sposato Judson per sublimare la mancanza di affetto paterno, a sua volta supplito dalla venalità di Cansino dettata dallo spietato show business.
Nel 1937, poco dopo il matrimonio, Judson e Rita incontrano Harry Cohn, il capo della Columbia. Quest’ultimo, non troppo convinto che l’esoticità della giovane latina potesse funzionare sullo schermo, propone di utilizzare il cognome della madre di lei, Haworth, aggiungendo però una y. Ma la gavetta era ancora lunga.

Criminals of the Air (1937) è il film in cui compare per la prima volta il nome d’arte Rita Hayworth e a cui seguono altri dodici prodotti di serie b prima di arrivare al 1939, anno della realizzazione di Avventurieri dell’aria di Howard Hawks, dove l’attrice affianca Cary Grant e Jean Arthur.
Il 1941 risulta il momento del lancio definitivo di Hayworth all’interno dello star system. Dopo Peccatrici folli (1940) di George Cukor, in cui ha tenuto testa alla bizzosa Joan Crawford, e Angeli del peccato (1940) con Douglas Fairbanks Jr., Rita trova la sua dimensione filmica a partire da Bionda fragola (1941) per la regia di Raoul Walsh. La produzione è targata Warner Bros., Olivia de Havilland e James Cagney sono i protagonisti. Quest’ultimo dimostrò sul set particolari attenzioni verso Rita, preoccupato che altre attrici non offuscassero la presenza della focosa chioma che ormai era diventata il simbolo stesso della giovane (tra elettrolisi e tinte) anteponendosi così a Susan Hayward, altra rossa indomita dal cognome assonante che stava pian piano emergendo all’interno dell’industria cinematografica americana.
Dopo la prova di Con mia moglie è un’altra cosa (1941) con Merle Oberon, Hayworth viene scelta per due lungometraggi in cui vengono riconfermate le peculiarità di femme fatale e di ottima danzatrice. In Sangue e arena (1941) di Rouben Mamoulian, Rita è Doña Sol, intrigante mantide religiosa che fa perdere la testa al torero Tyrone Power sulle note di Verde luna. Mentre ne L’inarrivabile felicità (1941) diventa Sheila Winthrop, ballerina che attira verso di sé le premure di Fred Astaire, e che ritroverà nuovamente in Non sei mai stata così bella (1942).
Nel frattempo il matrimonio con Judson arriva alla fine e, dopo una breve liaison con Victor Mature, Rita sposa nel 1943 (in mezzo al chiacchiericcio creato da Hedda Hopper e Louella Parsons, le “pettegole” di Hollywood) Orson Welles, dal quale avrà la prima figlia, Rebecca.
La carriera di Hayworth è sempre più in ascesa. Interpreta Fascino (1944) accanto a Gene Kelly e il già citato Gilda, entrambi per la regia di Charles Vidor. Con quest’ultimo lavoro l’icona di Rita viene indelebilmente fissata all’interno dell’immaginario collettivo divistico.

Il 1947 è un altro anno cardine per la filmografia della Nostra. Welles la dirige ne La signora di Shanghai. I due erano già separati all’epoca delle riprese, ma la collaborazione fu fortemente voluta da entrambi. Hayworth scioccò il pubblico presentandosi sullo schermo con capello corto e tinto di biondo: una scelta tanto discussa quanto efficace che fece della spietata Elsa Bannister il corrispettivo moderno, e in soli pochi mesi di distanza, di Gilda.
Dopo Gli amori di Carmen (1948, Charles Vidor), Rita conosce il principe Aly Kahn, erede dell’Aga Kahn III. I due si sposano a Cannes nel 1949, la passione è travolgente tanto quanto le sofferenze che deve patire la donna per i continui tradimenti (sessuali e finanziari) del consorte, e nonostante dalla loro unione sia nata Yasmin. Ben prima di Grace Kelly e Ranieri, Hollywood aveva saldato la celebrazione tra diva e principe, un atto fiabesco che vede la sua fine col divorzio nel 1953.
Lo stesso anno in cui Rita prende parte a due produzioni fastose per far fronte alle difficoltà economiche dopo il naufragio del matrimonio: Salomè di William Dieterle e Pioggia di Curtis Bernhardt (ruolo che fu già di Joan Crawford nel 1932). Entrambi i film risultano dei flop al botteghino, l’icona Hayworth vira sempre più verso il vizio della bottiglia e, nel frattempo, altre due nozze saltano (rispettivamente con Dick Haymes e James Hill).
Nonostante progetti importanti come Pal Joey (1957, con Frank Sinatra e Kim Novak) e Tavole separate (1958, con Deborah Kerr, David Niven e Burt Lancaster) la carriera di Rita singhiozza senza arresto. I lavori più interessanti di questa ultima parte filmografica sono pochi e non sempre considerati buoni dalla critica. Nel 1964 interpreta Lili, la madre trapezista di Claudia Cardinale ne Il circo e la sua grande avventura (di Henry Hathaway) con John Wayne. Curiosamente, Duccio Tessari la dirige nel noir I bastardi (1968) accanto a Giuliano Gemma e Klaus Kinski. E forse, proprio qui, Rita sigilla definitivamente vita pubblica e privata attraverso il ruolo dell’etilista Martha e offerto in origine (guarda caso) a Joan Crawford.
Dopo La collera di Dio (1972, di Ralph Nelson, autore di Soldato blu), in cui fu voluta fortemente dall’amico Robert Mitchum, Hayworth abbandona definitivamente i set cinematografici, ritirandosi a vita privata.

Nel 1982, poco dopo aver scoperto di soffrire del morbo di Alzheimer, Stephen King le dedica il racconto Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank, all’interno della raccolta Stagioni diverse e da cui verrà tratto il film Le ali della libertà (1994) di Frank Darabont con Tim Robbins e Morgan Freeman.
Accudita dalla figlia Yasmin, Rita si spegnerà il 14 maggio 1987 nella sua New York, ormai divorata dalla demenza senile: il cinema ha perso un’altra stella.
Le celebrazioni e i riferimenti iconici della diva sono innumerevoli e tra i più disparati. Dalla famosa battuta “cult” di Fantozzi (1975), nella sequenza dove il ragionier Ugo/Paolo Villaggio consola l’orrenda figlia Mariangela/Plinio Fernando paragonandola a «“Cita” Hayworth, una famosa attrice americana, la più bella di tutte»; alla rovente Jessica Rabbit in Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988); allo spot anni Novanta di Lavazza in cui, seduti a un tavolino, Tullio Solenghi fa il cascamorto proprio con la rossa di Hollywood.
Questo per dimostrare come Rita Hayworth non era solo un’attrice, ma un autentico sex symbol che, a tutt’oggi, risulta ancora perfetto esempio di cosa significhi essere icona di bellezza, di immortalità e di irraggiungibilità.

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