Ritorno a Seoul, di Davy Chou

Un’investigazione sulle radici e sullo stare al mondo, che sorprende per la forza con cui rifiuta qualsiasi gabbia o idea di chiusura. E staccare gli occhi da Park Ji-min risulterà quasi impossibile

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Davanti ad un film come Ritorno a Seoul così attento a costruire la storia attorno ai tempi morti, si resta sempre sorpresi dai suoi rari attimi di follia: da quei movimenti improvvisi nello spazio, che come saette nel buio, squarciano i ritmi regolari dell’attesa, per illuminare una verità che la sola macchina da presa, nella staticità del suo sguardo, non è in grado di – o non può – rivelare. Più volte nel film vediamo la giovane Freddie (Park Ji-min) scattare in piedi da una posizione di immobilità (emotiva, esistenziale, fisica) e iniziare a ballare, quasi come se questo gesto la risollevasse da terra: come se avesse bisogno di una scossa improvvisa di adrenalina che la porti a prendere coscienza dei suoi disagi. Di quel vuoto, che a partire dall’istante in cui è stata abbandonata dai genitori coreani quando era ancora in fasce, le fa crollare il terreno da sotto i piedi. Con la realtà (o forse il mondo) che sembra perdere sempre più di significato.

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È proprio a questa incapacità della protagonista di metabolizzare quel trauma che la accompagna sin da bambina che Ritorno a Seoul lega tutte le sue investigazioni: nello spazio, nell’identità e, soprattutto, nelle relazioni familiari. Quel che il film di Davy Chou (qui alla sua seconda regia) mostra attraverso l’ostinata ricerca di Freddie dei suoi genitori naturali è la difficoltà a risalire alle origini – e quindi a ritornare alle radici del trauma – in un paese che non (e in cui non si) riconosce, nonostante sia a tutti gli effetti il suo luogo natio. Ma Freddie non è coreana: insieme alla sua famiglia adottiva ha sempre vissuto a Parigi, e l’unica lingua a cui affida i suoi giudizi e pensieri è, naturalmente, quella francese. Un ostacolo culturale, che parallelamente a quella sensazione di spaesamento che cadenza ogni passo della sua vita, non fa che aumentare il divario tra ciò che desidera nel profondo – cioè la presa di coscienza degli effetti traumatici dell’abbandono – e l’attesa per quel “senso di appartenenza” che l’incontro con i genitori dovrebbe, almeno nelle sue previsioni, attivare.

Quel che sorprende veramente di Ritorno a Seoul è il modo in cui annulla i desideri della protagonista nel momento stesso in cui li mette in campo. Perché la vita di Freddie è l’immagine della passività: ogni azione che la ragazza compie è un passo in più verso il buio, che non rischiara né dissipa le nubi che ne rendono così inconcludente il cammino. E lo stesso viaggio che la porta a muoversi (o meglio, a girovagare) lungo tutto il territorio coreano, da Seoul a Gunsan fino a Jeonju, non fa che sbatterle in faccia una dura verità: cioè che la Corea, quel paese a cui “appartiene” e in cui ricerca così strenuamente un senso radicamento, è per lei un luogo senza coordinate. Il limite di una vita che ha un inizio nebuloso e una progressione ancora meno lineare. Per cui conta il solo momento presente, avvolto in un’anestesia talmente invasiva e soffocante, da poter essere affrontata, disinnescata (ma mai superata?) solo attraverso il ritmo di una danza folle. Con l’atmosfera che di volta in volta cambia, si elettrizza per poi ritornare, ostinatamente, allo stato di passività iniziale.

Non è un caso allora che in Ritorno a Seoul tutto passi per la prossemica. Sono gli spostamenti a vuoto della protagonista, così come gli istanti in cui la osserviamo immobile a guardare attraverso il finestrino di un auto in corsa, che rendono conto di un percorso stagnante, privo com’è di una direzione lineare. È in questo senso che va riletta l’ostinazione del cineasta per la prossimità. Un ossessione, che in termini di linguaggio ricorda molto i primi piani assayassiani di L’eau froide o Clean (d’altronde il regista si è formato in Francia) per come associa gli spostamenti della ragazza alla ricerca del suo posto nel mondo. Sin dall’inizio vediamo infatti Davy Chou attaccarsi al corpo della sua (formidabile) attrice. Scrutarne i cambiamenti che ne attraversano il volto. Per poi bombardarci con momenti di sincerità, che alla pari di vertigini improvvise, ci rendono indifesi davanti ad una verità dal tono così struggente, brutale e autentico. Eppure, malgrado questa attitudine del racconto ad “andare avanti”, tutto (ri)torna allo stato di partenza. Perché per Freddie neanche il fugace ricongiungimento con la madre può davvero cambiare la traiettoria di un percorso immutabile. Per quanto intensa, è una parentesi fin troppo minuscola ed estemporanea per poter essere risolutiva. Con il film che sfugge a qualsiasi gabbia. Fino a rifiutare ogni idea di chiusura. Lasciando lo spettatore in sospeso. Tra le note struggenti di un pianoforte che ci riporta tutti nel buio…

Titolo originale: Retour à Seoul
Regia: Davy Chou
Interpreti: Park Ji-min, Oh Gwang-rok, Guka Han, Kim Sun-young, Heo Jin, Yoann Zimmer, Louis-Do de Lencquesain, Kim Dong-seok, Son Seung-beom, Emeline Briffaud, Lim Cheol-hyun, Hur Ouk-sook
Distribuzione: I Wonder Pictures
Durata: 119′
Origine: Francia, Cambogia, Corea del Sud, 2022

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
Sending
Il voto dei lettori
3.76 (34 voti)
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    Un commento

    • Nino Azzarello

      Freddie parte per la Corea, paese in cui è nata, pe ritrovare i suoi genitori biologici. Lo spaesamento è totale, la strada sbarrata da lingua, cultura, e un padre dedito all’alcol. Ma Freddio non demorde, anzi si ostina nella ricerca che la fa tornare a Seoul, perchè in realtà quello che cerca è la sua identità. Il cammino è duro e tortuoso con passaggi attraverso amori fugaci, droga e balli onirici. Da cui però si riscatta con ostinato impegno, impara la lingua, si integra nella cultural e nella società, ma non nella propria famiglia. ” Vieni a vendere missili in Corea? Per fare la guerra?” Le chiede il padre. ” No, per fare la pace” risponde lei, perchè così le hanno insegnato a dire. Ma si rende conto che è una bugia, che lei è usata come cavallo di Troua e si ribella. Cancella gli uomini che l’hanno ” anata” e quell’Andrè che la
      vuole coinvolgere nel traffico d’armi, e”molla tutto”. Nell’ultima scena, la protagonista ritrova la pace estraendo da un piano le note che sgorgano dalla sua anima. È la consapevolezza di sè e di chi vuole essere, della ritrovata identità.