Ritratto di un certo Oriente. Intervista a Marcelo Gomes
L’ultimo film del regista brasiliano evidenzia la centralità del cinema e della fotografia in quanto forze magiche e guaritrici. In occasione dell’uscita in sala ecco la nostra intervista esclusiva

L’ultimo film del regista brasiliano Marcelo Gomes (adattamento dell’esordio letterario omonimo di Milton Hatoum del 1999) Ritratto di un certo Oriente è un film che mette in evidenza l’idea del conflitto tra differenti culture in un mondo in bianco e nero dell’immediato secondo dopoguerra. Il viaggio in barca dal Libano al Brasile che i protagonisti Emile, Emir e Omar affrontano sembra contenere il fulcro di una narrazione perennemente volta alla scoperta dell’altro, del diverso, in una veste fortemente magica; ma anche con un continuo omaggio al cinema classico e alla fotografia in quanto forze guaritrici. Ecco la nostra intervista esclusiva.
Marcelo, come hai scoperto il libro omonimo di Milton Hatoum? Quando e perché hai deciso di farne un adattamento?
Conoscevo Milton per i suoi libri ovviamente, li leggevo tutti, e un giorno l’ho incontrato. Gli ho detto che amavo molto le sue opere, e lui mi ha risposto che amava molto i miei film. Ad ogni modo, sono rimasto colpito dal suo Ritratto di un certo Oriente, il suo esordio del ‘99. Ho sempre pensato che sarebbe stato un soggetto perfetto per un film: questa opportunità di osservare il mondo da un punto di vista completamente opposto al nostro. E certamente sarebbe stato anche un film sulla memoria e sui ricordi. Il mio film è incentrato proprio su questo, la ricerca di una nuova vita cercando di fuggire dai traumi del passato. Insomma, i temi del libro mi sono piaciuto moltissimo sin da subito, e nell’adattamento ho provato a cambiare alcuni punti, non volevo essere completamente fedele al libro di Milton. Volevo reinventare la storia. Anche Milton era d’accordo con questa mia idea di cambiare alcune cose. Mi ha detto: “Fai come credi. Il libro è lì, ed è concluso. Fai ciò che ritieni più giusto”. Da quel momento ho iniziato a lavorare sulla sceneggiatura, che in un primo momento era molto simile al libro ma lentamente ho iniziato a creare la mia storia, più personale. Una delle prime cose che ho voluto accentuare è stato il tema dell’immigrazione, perché volevo renderlo più attuale possibile. Quindi ho spinto molto su questo aspetto, delle rotte migratorie dal Libano al Brasile: com’è il viaggio? Come si rapportano le persone sulla barca tra di loro? Per me sono domande fondamentali, perché quando si viaggia si cambia carattere: se sono a casa o sono in Africa sarò due persone completamente diverse. Questo è il punto, il viaggio cambia le persone e Emilie cambia accogliendo nuove emozioni e nuove sensazioni del mondo. Quindi il fatto che io mi sia concentrato molto sul viaggio è la prima differenza rispetto al libro di Milton. Un secondo aspetto che volevo mettere al centro è sicuramente l’idea di “territorio”. Se da una parte qualcuno fugge da una guerra, dall’altra, nella foresta, altri combattono per restare a vivere lì nonostante le pressioni di chi quelle terre le possiede. Questa è la questione, tutti i personaggi cercano un posto che possano chiamare casa. Ecco i due nodi centrali. Immigrazione e nativi che in qualche modo riflettono sull’idea di territorio.
A proposito dell’idea di viaggio e spostamento, quanto questo tema ti ha permesso di offrire un maggior respiro al tuo film, anche nella realizzazione pratica?
Sicuramente dal punto di vista tecnico è stato parecchio complesso. Non avendo a disposizione una nave del secondo dopoguerra abbiamo dovuto ricostruirne una. Poi per girare i momenti ambientati in Libano, che vista la situazione politica attuale è impossibile da raggiungere, abbiamo iniziato a cercare dei luoghi che fossero abbastanza simili all’entroterra libanese. Il posto più simile che abbiamo trovato era proprio l’Italia, a Napoli. Girare a Napoli è stato bellissimo, e abbiamo trovato molte attrici che parlavano arabo. A Napoli ci siamo sentiti come a casa, e la gente ci ha trattato veramente bene. Tutto ha funzionato al meglio. Il film è in bianco e nero quindi è stato facile adattare l’ambiente e l’atmosfera della Seconda Guerra Mondiale. Il momento della partenza in particolare credo sia centrale nel racconto di un conflitto, perché sai che quei personaggi non torneranno mai più indietro, a casa loro. Ed Emilie deve confrontarsi con una nuova vita, anche se si trova ancora legata al suo passato e ai suoi traumi. Ecco perché la barca è così importante nel film. Nel libro non viene raccontata questa lunga traversata e tutto succede a casa di Emilie. Io ho trasformato la casa in una nave.
Il tuo è un film pieno di conflitto, rintracciabile anche all’interno degli stessi nuclei familiari; come tra Emilie e Emir. Quanto è importante secondo te mostrare queste contraddizioni per combattere i pregiudizi, specialmente pensando ai tempi che stiamo vivendo?
Assolutamente, oggigiorno siamo immersi nei pregiudizi contro altre persone diverse da noi, altre culture e altre religioni. E ogni giorno la situazione sembra peggiorare. Ad esempio la nostra attrice protagonista (Wafa’a Celine Halawi, ndr) quando è venuta in Brasile a presentare il film è dovuta fuggire dall’esplosione di una bomba a tre chilometri da casa sua, in Libano. Era ottobre dello scorso anno, durante la guerra con Israele, e sembra esattamente quanto accade col suo personaggio. Sembra che noi sappiamo imparare solo dagli errori del passato, e mai dalle cose positive. Ho pensato di creare una scena che per me rappresentasse un’utopia , un momento di speranza: quando Emilie sta pregando il suo Dio perché suo fratello è ferito, e dall’altro lato del villaggio anche Omar sta pregando il suo Dio. E nel mezzo, gli indigeni pregano per loro. Tutti insieme stanno pregando e convivono pacificamente. Per me questo è il maggiore momento di speranza nel film. Penso che i nativi della foresta possano insegnarci molto, nel loro modo di accogliere tutti, indipendentemente dalla fede, semplicemente li accettano e gli offrono aiuto per guarire. Questo penso sia il messaggio maggiore del film; ovvero che non avremmo bisogno di guerre se tutti rispettassero le fedi altrui senza pregiudizi. Se non rispettiamo le differenze tra tutti gli individui, penso che questo sia il primo passo per cedere al totalitarismo, che oggi sta prendendo parecchio piede.
Nella parte ambientata nella foresta amazzonica è come se mettessi al centro del discorso l’importanza del ritrovare un contatto con la natura. Era questo che volevi comunicare?
Milton Hatoum spiega che la foresta amazzonica è l’ultima pagina della Genesi, nella Bibbia. In qualche modo è la rappresentazione di un terra sconosciuta, e tutto è lì per essere scoperto, e noi dobbiamo rispettare questo mondo. Io penso che l’idea di fondo sia questa, rispettare la natura e la gente che la abita e la loro cultura, la loro scienza e la loro conoscenza. Anche se gli immigrati arrivano nella foresta, devono necessariamente rispettare tutto ciò che questa contiene.
Nel film c’è un momento molto significativo, nel quale Emir guardando lo sviluppo di una fotografia chiede a Dorner, il fotografo, se “quella è magia”. Dorner risponde che “è solo scienza”. Quanta magia e quanta scienza servono per fare cinema, secondo la tua esperienza?
In verità ci sono tre momenti di magia dentro la scienza nel film. Il primo è quello durante il quale il capo villaggio dei nativi prepara la medicina per curare Emir e la infonde di magia. Il secondo è quando Emir guarda la foto che si sviluppa davanti ai suoi occhi e dice “è come una magia”. In quel momento c’è la stessa magia del capo villaggio che prepara l’impasto curativo. Certamente sono due diversi tipi di magia, il secondo è tecnologico mentre il primo proviene da una cultura antica della tribù. Il terzo momento è alla fine, durante l’ultima inquadratura, quando vediamo la foto di Emilie. In questo caso la magia sta nel fatto che lei è guarita dai traumi del passato. Quello che amo di questi tre momenti è che parlano molto del modo in cui noi percepiamo il cinema, ovvero come un qualcosa che ci aiuta a capire molto del mondo che ci circonda, di noi stessi, di altre culture, altre prospettive di vita. Proprio come una magia. Il mio film in qualche modo è proprio una celebrazione del potere magico della fotografia e del cinema.
E questo amore per il mezzo cinematografico sembra manifestarsi soprattutto pensando all’innamoramento di Emir per la fotografia.
La mia stessa scelta di girare in bianco e nero è un omaggio al cinema. Emile sceglie di lasciare il Libano per arrivare nella foresta. Qui c’è un momento nel quale dice “sono spaventata dalla foresta”. L’unico modo per lo spettatore di sentire quella paura era rendere la foresta in bianco e nero, perché le ombre contengono dei misteri abbastanza paurosi. Se avessi girato a colori la foresta sarebbe stata piena di colori, quindi parecchio esuberante, e magnifica in un certo modo, ma non drammatica. Ecco perché il bianco e nero. Nel bianco e nero c’è un omaggio al cinema degli anni ‘40, e sopratturro alla fotografia in quanto contenitore di memorie e ricordi.