Riviera Film Festival 2025 – Incontro con Matt Dillon
Tra il ricordo dei grandi maestri e uno sguardo al cinema del passato, Matt Dillon si racconta durante una masterclass in occasione dell’evento di Sestri Levante

Tra le proposte della sala Ariston e i luoghi affollati della nona edizione del Riviera International Film Festival, si muove un volto e corpo cinema che ha dialogato tanto con gli spettatori di ieri, quanto con quelli di oggi. Il suo è un percorso classico, tipicamente hollywoodiano. Un giovane ribelle che diventa una star, una star che in virtù della sua celebrità, può permettersi di osare, rischiare e talvolta perfino di sparire. Matt Dillon si è calato a fondo nelle maschere e verità spesso scomode del panorama cinematografico del tempo, così come in quelle proposte dagli autori d’oggi. Racconta il cinema come un sogno lontano, forse perduto, o addirittura irraggiungibile. Passando per Francis Ford Coppola, Gus Van Sant e Lars von Trier. Cos’è stato il cinema? Cosa può ancora essere? Nel mezzo la caduta e come rimettersi in piedi. Restando vivi, sempre.
A proposito degli esordi, Dillon svela: “Non ho mai sentito il bisogno di vendermi come estroverso. Di fatto non lo sono mai stato. Che si trattasse della strada, oppure di un palco. In me non c’era mai quel desiderio folle e affamato tipico di chi si esibisce come attore. Detto questo, mi sono sempre sentito a mio agio rispetto al fatto di esibirmi, mi è sempre piaciuto, ma non c’è mai stata una vera e propria esigenza. Oggi viene chiamata così. Ecco perché non sono mai stato un estroverso, che poi è una delle ragioni per cui sono diventato attore in effetti. L’esibizione mi piace, ma non sento il desiderio di esibirmi sempre. Riesco ad osservare una rottura nel mezzo, che è la realtà oltre lo spettacolo e la finzione del personaggio, la vita insomma. La maschera che cade no? Ognuno ha le proprie ragioni per cominciare questa carriera. Molti attori che conoscono per esempio, hanno iniziato proprio perché animati dalla volontà di esibirsi. Io non sono mai stato come loro, nemmeno ora”.
Come detto, ai maestri Dillon arriva presto, quasi immediatamente. Queste le sue parole su Francis Ford Coppola: “Avevo appena compiuto diciotto anni. Lo ricordo bene. Era il 1983. Probabilmente ero uno degli attori più giovani del cast. Coppola all’epoca era un Dio, perciò io così giovane ero proprio nelle mani di un Dio, che altro puoi pensare se non Wow? Tra l’altro io sono stato scritturato quell’anno non soltanto per un film (I ragazzi della 56ª strada), bensì due, perché nello stesso periodo abbiamo girato anche Rusty il selvaggio. Sul set del primo, Coppola mi si avvicina e mi parla di un libro )il romanzo di Rusty il selvaggio di S. E. Hinton) e mi dice di leggerlo. Io lo faccio ovviamente e in poco tempo sono a bordo. A differenza de I ragazzi della 56ª strada, per quanto le basi di scrittura facessero riferimento allo stesso autore, Rusty il selvaggio ha rappresentato per me un’esperienza del tutto nuova, nonostante il ritorno di alcuni interpreti del film precedente. Quello era il racconto di una famiglia altamente disfunzionale, pensato per essere un film decisamente più complesso, rispetto alla sua ricezione nel tempo. Basti pensare che gli Oscar quell’anno lessero il film come un’esperienza filmica widescreen, al pari di Via col vento. Eppure Francis lo aveva pensato e confezionato in tutt’altro modo, a partire dalla scelta così precisa del bianco e nero. Quasi all’inseguimento di un neorealismo fuori tempo massimo. Insomma, lavorare con Coppola è stato fantastico. La mia prima grande esperienza di approfondimento sul mestiere dell’attore e del fare cinema”.
Giungendo poi al suo secondo maestro, Gus Van Sant: “Pochi ingiustamente ricordano il suo primo film. Perché non è stato Drugstore Cowboy, quello era il secondo. Un film che non ho rivisto spesso. Devo dire la verità, per me è un po’ difficile rivedere i miei primi lavori, perché sto ancora crescendo e imparando e ho bisogno di concentrarmi più su quello che sarà, piuttosto che su quello che è stato. Però se ripenso all’esperienza con Gus, bè lì ho iniziato in qualche modo a sentirmi a mio agio nel guardarmi sul grande schermo. Mi sono sviluppato pienamente, ho raggiunto una qualche sorta di maturità che ancora oggi fatico a spiegarmi. Una grande esperienza senz’altro. Quando abbiamo girato quel film poi, ho percepito di essere parte di qualcosa di inavvertitamente unico, nuovo, fresco. Qualcosa che non era mai stato fatto prima. Non sempre accade, anzi quasi mai”.
Fino all’esperienza atipica, infernale e al tempo stesso divertente, che Dillon vive sul set de La casa di Jack, l’ultimo lungometraggio da regista di Lars von Trier: “Molti dei presenti forse conoscono questo film. Molti altri no. A tutti do lo stesso consiglio, non vi fermate a ciò che avete sentito, o letto, o peggio saputo, senza nemmeno indagare ka veridicità dei racconti. Il film è audace, questo è innegabile. Ma fatico anche a definirlo un film, poiché non lo è. Lo chiamo piuttosto un’esperienza. È stato molto intenso, ma è proprio questo il motivo per cui ho voluto farlo. È stata l’esperienza più complessa, oscura e al tempo stesso felice di tutta la mia carriera d’attore, ancor più orchestrata da un regista che ho sempre ammirato, Lars von Trier. Il personaggio poi era davvero meraviglioso. Una vera e propria meditazione sul male, che anziché restare agli inferi, vive nascosto ma anche no tra noi, svelandosi tra luce e oscurità, seminando violenza e in qualche modo giustizia luciferina. I rischi di fallire senz’altro erano molti. Dar vita ad un serial killer credibile, perciò davvero temibile perché umano al cinema, non è mai qualcosa di immediato e fuggite sempre da chi vi racconta il contrario. Ti devi calare nel male per comprenderlo appieno e quando lo hai capito, cercarlo ancora, finché non diventi un tutt’uno. Lars e io cercavamo l’oscurità attraverso il divertimento e forse, mi auguro, l’abbiamo trovata”.
Aggiunge poi: “Credo che oggi parte del pubblico stia rileggendo alcune dinamiche di quel film e ci tengo a sottolineare una cosa: Jack non è un predatore sessuale. Il suo desiderio di uccidere, non risponde unicamente alle leggi della violenza, piuttosto ancora una volta, a quelle dell’inferno. D’altronde lo sapete, non è uno spoiler, lui quell’inferno di cui parlo lo raggiungerà davvero. Sul rapporto con Lars invece posso soltanto dire che un’intesa è scattata quasi immediatamente credo. Eravamo abbastanza d’accordo su tutto e dovevamo fidarci l’uno dell’altro, soprattutto io dovevo fidarmi di lui. E questo ha prodotto un accordo che avevamo: dovevo fidarmi del peccato fino in fondo. Detto questo, io non posso che ripetere qualcosa che moltissimi altri interpreti hanno già detto e scritto più e più volte: Lars è un regista davvero bravo. E altri attori si sono presi dei rischi con lui e io avrei fatto qualsiasi cosa per vivere quell’esperienza in prima persona, cosa che ad oggi posso dire d’aver fatto. Quando poi da attore, osservi il rischio corso e vissuto da altri attori, di certo sopravvissuti e non maltrattati da un metodo di lavorazione atipico, registri immediatamente una verità che ad Hollywood non sempre è rintracciabile: questo è un regista di cui ci si può fidare. È un provocatore, sì. Ma è bravo, coraggioso e leale. Mi dispiace se il film ha scandalizzato e spaventato molti, ma guardate me, non sono un mostro no? Lui mi ha permesso di diventarlo, dopodiché la maschera cade e restano l’attore, l’uomo e la verità. Una cosa divertente e a suo modo spaventosa su Lars che posso raccontarvi, è che sul set può accadere ripetutamente un fatto strano: Lars si concentra su un attore, a volte anche poco noto e lo studia nel corso della scena per poi congratularsi con lui dicendogli qualcosa tipo, ‘oh, sei stato fantastico’. Dopo di che viene da te, ti guarda dritto negli occhi e con fare minaccioso ti intima di dover assolutamente offrire una performance migliore, per poi suggerirti di licenziarti, o sarà lui a farlo. Un’altra cosa poco nota, che io e moltissimi altri interpreti ci siamo chiesti più e più volte è: ma come diavolo fa a raccontare l’America, se non è mai stato in America? Perché moltissimo suo cinema è ambientato lì, o almeno dovrebbe. Così nel corso della lavorazione di La casa di Jack mi sono avvicinato e gliel’ho chiesto. La sua risposta assolutamente composta e glaciale è stata: guardo molto la CNN”.