"Rize", di David LaChapelle

In una apparente progressione che dimentica il tempo, senza soluzione di continuità, fluido come il contagio e la contaminazione, LaChapelle dosa documentario puro e videoclip e sposta di peso il pubblico in una Los Angeles poco pensata

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Dosando con una miscela micidiale e incalzante documentario puro e videoclip, il fotografo e regista LaChapelle sposta di peso il pubblico in una Los Angeles poco pensata. La luce acceca lo stesso, la scena è una remotissima provincia di Hollywood, il sobborgo è South Central – e quasi stride (ad effetto) lo stile documentaristico con una realtà che certe scorciatoie mentali possono immaginare più da film che da strada: gang, colori rivali, sparatorie sotto casa. Al centro, un clown che inizia ad animare feste ballando quella che sembra una variante dell'hip-hop. Rize parte da qui e racconta. In una apparente progressione che dimentica il tempo, senza soluzione di continuità, fluido come il contagio e la contaminazione, si sposta da un'invenzione casuale e finalizzata (Tommy il clown racconta come il ballo possa trascinare i ragazzini, sviandoli dall'adesione a questa o a quella gang) alle evoluzioni/varianti – dalla stripper dance al krump, sintesi di lotta e ballo, aggressività e coesione. E quella fluidità che LaChapelle ha scelto è il simulacro cinematografico dell'onda, quella di cui parlano i protagonisti, quella che sembra di sentire spostarsi da un angolo all'altro di questa sacca d'America in cui i membri dei clan si dipingono il viso e si sfidano sublimando l'aggressività nella danza. L'onda della Los Angeles del ghetto, angusto ma sicuro rispetto a una Hollywood troppo lontana e che spaventa; l'onda del Krump che per i clan di clown "è l'unica cosa che ci unisce, noi non possediamo niente". L'onda dell'oppressione che, autopercezione condivisa, rimbalza, risuona e sceglie (con uno sfondo di valori dichiarati, famiglia e religione vs. il consumismo macchinoni-gioielli che rimanda a una scena rap "ormai stanca") una via alternativa alla violenza. E a LaChapelle basta una scena per sintetizzare l'idea, quando inquadra dal basso e in interno soffocante: potenza della danza, dei corpi, dell'istinto e schiacciamento dei meccanismi sociali e comunitari. E' ancora fluidità la scelta di usare indifferentemente stili di ripresa diversi per la stessa scena – strada e esibizione, coreografia e casualità si mescolano e non conta più distinguere; tutto sembra casuale e primitivo, quasi amatoriale: invece è accuratissimo, emozionante in tutti i colori della fotografia, anticipatore e infallibile nell'attimo, nel ritratto, nel dettaglio. Il pop appare a tratti nell'artificialità dei colori saturi, piatti, accecanti, nel sottile alone chiaro intorno ai corpi, negli effetti bidimensionali e di sovrapposizione. Forse l'unica stonatura è l'accostamento tra le danze di strada e quelle africane. E' vero, i protagonisti affermano che la loro pratica è radicata nelle origini della loro cultura. E' vero anche che l'idea della danza/lotta/sublimazione come universale culturale affascina. Sembra una semplificazione, però, montare danze di matrice religiosa, propiziatoria, tribale insieme al krump che appare come inesorabilmente – appunto – fluido e contaminato, afro-americano per definizione, ritmo nero più derive hip-hop e break-dance, postmoderno fin nel midollo – come il film.

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Titolo originale: id.


Regia: David LaChapelle


Interpreti: Tommy the Clown, Lil C., Dragon, Tight Eyez, La Niña, Miss Prissy


Distribuzione: Officine Ubu


Durata: 86'


Origine: USA/Gran Bretagna, 2005

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